Se c’è un modo in cui noi italiani non dovremo vedere questi Giochi, che già fanno stare col cuore in gola solo perché finalmente ricominciano, è quello di stare lì con il pallottoliere davanti, ad aspettare la conta, il record, l’algoritmo. Perché lo sport presenta il conto, e a volte punisce i presuntuosi
Che strano sentimento, ora che comincia un’altra Olimpiade e ci sembra troppo vicina all’ultima, tre anni di attesa invece di quattro e gli occhi e i pensieri ancora pieni di quella sbornia in Giappone.
Che strano sentimento: l’eccitazione della vigilia, la voglia di vedere, tifare, soffrire, la paura di non essere all’altezza di tutte queste speranze che nelle settimane hanno preso l’aspetto disturbante dei proclami, che ci faranno vedere le Olimpiadi con nella testa previsioni di gloria imperitura ed eterna.
Proprio noi italiani, abituati per decenni alle briciole del mondo, noi grandi negli sport piccoli e piccoli in quelli grandi, noi figli di calcio e ciclismo che vedevamo gli altri vincere nel nuoto e nell’atletica e ci prendevamo la nostra dose di orgoglio nella scherma e nel tiro al piattello, noi che quando vinse Pietro Mennea provammo un groppo in gola così forse da farci dimenticare che non c’erano gli americani, chissenefrega se non c’erano, peggio per loro che non c’erano.
Tokyo 2020 (2021)
Poi Tokyo, ecco, Tokyo: le cinque medaglie d’oro nell’atletica, le 40 complessive, record di sempre, il decimo posto nel medagliere, l’Italia nuova che vince dappertutto, 19 discipline diverse, palestre, piscine, palazzetti, poligoni, fiumi e mari, stadi e bacini.
Però questa grandezza genera anche un filo di inquietudine, stordisce, perché gli algoritmi e le intelligenze artificiali hanno detto che a Parigi andrà ancora meglio, le medaglie saranno 46, le discipline in cui se ne vincereanno diventeranno 20, e gli ori passeranno da 10 a 11, e insomma sarà sempre di più una grande Italia, un potenza, anzi, una superpotenza a cinque cerchi, olimpica e dunque universale.
Fa paura forse perché un tempo, quando eravamo piccoli, l’eccezione della vittoria, anche negli sport negletti fatti da pochi, aiutava a restare con i piedi per terra, a non esagerare con le iperboli, al massimo procurava orgoglio, emozione, empatia se non affinità con quei ragazzi alle prese con tutto il mondo, eravamo noi italianetti che sapevamo farci valere un po’, e ci sentivamo uniti e fieri di farlo.
Ma la parola nazionalismo no, quella applicata a noi non ci veniva in mente neppure come un’ombra, e il brand Italia, che dio ci perdoni per il termine, non suonava mai eccessivo, era caldo e discreto: si vinceva e più spesso si perdeva senza che questo assumesse un valore identitario, nel senso peggiore del termine, un’identità rivendicativa, elitaria, esclusiva.
Col cuore in gola
Saranno questi tempi un po’ sguaiati e un po’ sbracati, saranno i ministeri che tengono Italia e italianità nel nome, sarà il mercato che si è adeguato, anche il supermercato dove ormai non c’è scatola o lattina o bottiglia senza la bandierina e il made in Italy in bella vista, sarà il nuovo linguaggio dei racconti sportivi dove chi perde una finale di uno slam induce a un titolo allarmato, che succede?, sarà un po’ tutto questo.
Però, ecco, se c’è un modo in cui non bisognerà vederli questi Giochi che già fanno stare col cuore in gola solo perché finalmente ricominciano, è quello di stare lì con il pallottoliere davanti, ad aspettare la conta, il record, l’algoritmo. Non bisognerà vederli con gli occhi foderati di tricolore e con le orecchie inzeppate di enfasi, perché poi lo sport presenta il conto, e a volte si diverte a punire i presuntuosi, e anche il nazionalismo da tribuna.
Sarà difficile, se non vinceremo più cinque medaglie d’oro nell’atletica, se la staffetta 4x100 non riuscirà nell’impresa che sarebbe sovrumana di finire sul podio battendo qualcuno tra americani, inglesi, giamaicani e chissà chi altro, se Jacobs non farà il 9’80 che fece a Tokyo e che invece altri già hanno fatto, sarà difficile allora tornare a celebrare la grandezza dei piccoli con la misura che serve.
Perché poi le nostre medaglie le vinceremo comunque, nella nostra scherma che a Tokyo rimase a secco di ori come il nostro tiro, nel canottaggio, nella boxe, speriamo nel nuoto, nel tennis, nel ciclismo, nella ginnastica ritmica, insomma in tanti, tanti sport. Ma non saranno comunque ori per la patria. Saranno ori e argenti e bronzi dei ragazzi di un paese che sta cambiando i suoi gusti e la sua cultura sportiva, che finalmente non è più una monocultura.
L’attimo fuggente
Ragazzi attratti dalla passione e non dai soldi, almeno non solo, ragazzi che studiano, tanti, o hanno trovato nei corpi militari datori di lavoro che gli consentono di coltivare quella passione, ragazzi che non conosciamo e conosceremo, come conoscemmo e scoprimmmo Federica Cesarini, Valentina Rodini, Luigi Busà, Ruggero Tita, Caterina Banti, Vito Dell’Aquila, Simone Consonni, Francesco Lamon, Jonathan Milan, Lorenzo Patta.
Se sono nomi che non vi dicono niente, ecco, sono tutti campioni olimpici, gente per cui tre anni fa palpitammo e magari ci commuovemmo, prima di dimenticarli. Perché poi le Olimpiadi sono questo, l’attimo fuggente e folgorante che riempie la vita di un ragazzo. Loro non non dimenticheranno mai.
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