Una Little Eritrea nel centro della città: a Porta Venezia si è ormai radicata una piccola comunità che ha aperto nella zona bar e ristoranti. A mettere tutti d’accordo, però, ci sono lo zighinì, il piatto nazionale da mangiare rigorosamente con le mani, e la miscela di spezie berberé
Una piccola Asmara nel centro di Milano. Tra le vie della movida di Porta Venezia, dove ci si vede per una birra al Picchio o in uno dei locali di via Lecco, cuore del Rainbow district meneghino, si è ormai insediata da tanti anni la comunità eritrea, che ha aperto ristoranti, bar, ma anche agenzie di viaggi e attività commerciali. Secondo i numeri dell’Istat, aggiornati al 2023, sono poco più di 6mila gli eritrei presenti in Italia, in calo del 2,6 per cento rispetto al 2022: di questi poco più di 2 mila sono in Lazio e circa 1500 in Lombardia.
«Anche i nostri giovani preferiscono andar via: si trovano meglio all’estero, dove si trova più facilmente lavoro» racconta Isayas Zewoldi, uno dei soci dell’Adulis, storico ristorante eritreo di via Melzo. Un pensiero condiviso anche da chi è andata via ed è poi tornata, come Aster Sagai, responsabile del ristorante Warsà, aperto da sua madre Kebi all’inizio degli anni Novanta, che si trova sulla stessa strada. «Sono nata in Eritrea e arrivata molto piccola in Italia, ma poi ho studiato e lavorato all’estero: lì sono più aperti, ma qualche piccola apertura l’ho notata anche qui» evidenzia.
L’Italia è terra di passaggio anche per i tanti migranti che arrivano dal piccolo paese africano, dove dall’indipendenza, ottenuta nel 1993, governa un solo padre-padrone, Isaias Afewerki. «Arrivano in tanti per chiedere informazioni, un pasto caldo, qualche parola in tigrino, prima di ripartire» sottolinea Zewoldi. Porta Venezia è Milano, ma è anche Asmara. È Italia, ma è anche Eritrea.
Adulis, Massawa, ma anche Warsà, che nella lingua locale significa “eredità”. Sono tanti i nomi dei locali di oggi e di ieri in Porta Venezia che ricordano posti lontani e uniscono la comunità eritrea, che oggi ha anche nuovi punti di riferimento come il Love, tra i locali più frequentati dai giovani della zona oltre che tra i più pop (non è un caso, infatti, che Mahmood lo citi nel suo brano Rapide). Ma la storia all’inizio non era così.
«Sono arrivato da Asmara nel 1973, quando gli eritrei potevano lavorare solo come autisti o collaboratori domestici. Sono stato un venditore ambulante, ho avuto anche un negozio in Stazione Centrale, poi ho scelto di lasciare» racconta Zewoldi, che dal 2000 gestisce il ristorante insieme ad altri due soci. Chi lavora in cucina è rigorosamente eritreo, «ma non c’è nessuno delle nostre famiglie: né i nostri figli né le nostre mogli sono interessati all’attività».
Dai quadri alle tende, quando si entra si capisce subito di essere in un posto diverso: come evidenzia uno dei proprietari dell’Adulis «l’ambiente è importante, ma bisogna saper servire il cliente, consigliarlo, coccolarlo, in modo tale che possa anche tornare domani». Anche la comunità è nel frattempo cambiata. «Oggi l’Italia per gli eritrei è solo un passaggio: non è facile vivere qui. Quelli che vivono in Italia sono pressappoco sempre gli stessi: chi arriva a Lampedusa poi decide di andar via, preferendo i paesi scandinavi, la Germania e la Gran Bretagna. Credo siano più protetti: qui se non trovi lavoro poi ti trovi in difficoltà» spiega Zewoldi.
Un problema riscontrato anche da Sagai: «Il sistema italiano è molto chiuso: non c’è grande possibilità di crescere a livello personale e professionale. In altri paesi chi ha studiato riesce a trovar sbocchi lavorativi nei rispettivi campi, in Italia è molto più difficile». Anche chi è diretto altrove sa che dalle parti di Porta Venezia può trovare un aiuto. «In tanti sono venuti qui, per chiedere informazioni o per mangiare, anche se non sanno come funziona qui. Ma non è un problema: dopo cena possono chiedere e, se ci sono ulteriori domande, li indirizziamo al Consolato eritreo, in zona Piazzale Loreto» continua Zewoldi.
«Facciamo quello che possiamo: un tempo li aiutavamo a sistemarsi qui mentre oggi preferiscono andar via: già da quando sono in Eritrea conoscono i paesi dove ci sono più possibilità» racconta Ionas Tesfamicheal, proprietario del ristorante Africa di via Palazzi, aperto da 38 anni. «Lo ha aperto mio zio, oggi ce l’ho io, che sono arrivato nel 1995 da Asmara, in cerca di un futuro migliore».
Il locale, un bar ristorante pieno nonostante siano passate le 16 di un giorno feriale, è un punto di ritrovo non solo per eritrei. «La nostra comunità è molto forte rispetto ad altre ed è molto unita: anche i ragazzi si ritrovano per festeggiare le ricorrenze eritree e partecipano a corsi di madrelingua, che spesso non conoscono» racconta.
Lo zighinì al centro
Nel menu di qualunque ristorante eritreo non può ovviamente mancare lo zighinì, in diverse versioni (solitamente di carne, di pesce e vegetariano) e dove le regole sono chiare: non ci sono piatti personali e non ci sono posate, perché è il cibo stesso a fare da posata. «È una tradizione che c’è sempre stata, e la cosa più bella è condividere il piatto. Non dimentico la frase di un cliente, venuto per la prima volta al ristorante, che venne a dirmi: “Adesso capisco cosa vuol dire condividere”. Mangiare nello stesso piatto vuol dire pensare all’altra persona e a quello che sta mangiando: è una condizione mentale, emozionale e anche spirituale» sottolinea Sagai.
Lavarsi bene le mani è perciò importante: è consuetudine in Eritrea far passare prima dei pasti una brocca con acqua e sapone, per questo «durante il Covid abbiamo fatto il possibile per rimarcare l’importanza dell’igienizzazione, attraverso ad esempio i distributori di gel» ricorda la responsabile del Warsà. A tavola, poi, c’è lo zighinì che aspetta. «Il piatto è composto da una piada, l’injera, che in Eritrea si prepara con la farina di Teff, un cereale molto diffuso che però è difficile da importare, mentre qui lo facciamo con un composto di farine, non adatto però per i celiaci. È importante, invece, avere dall’Eritrea una miscela di spezie, il berberé» racconta Zewoldi.
È uno degli elementi chiave della cucina eritrea ed etiope: nei negozi della zona, infatti, lo si nota subito dal suo inconfondibile colore arancione. «Lì si mangia solo quello ed è composto da peperoncino seccato e poi macinato in grani, mescolato ad altre 13 spezie, tra le quali ci sono lo zenzero, i chiodi di garofano e il coriandolo. Senza il berberé, lo zighinì è un normale spezzatino» spiega. Un simile uso delle spezie, così come delle verdure che poi accompagnano il piatto, è piuttosto comune in Eritrea visto che tutti hanno un orto di proprietà.
Infine, bisogna prestare attenzione alla carne: «Ci sono diverse versioni del piatto, come quella con il pollo, il manzo o l’agnello. Lo si cuoce come un normale spezzatino, aggiungendo la cipolla e il pomodoro e poi aggiungendo il berberé» racconta Zewoldi. Carne e verdure sono disposte seguendo un certo cromatismo, che rende questo piatto non solo buono da mangiare, ma anche bello da vedere.
© Riproduzione riservata