La tradizione italiana. La storia dell’edilizia pubblica a Napoli (ben documentata dai libri e dai video di Sergio Stenti, Ugo Carughi e di Altri), è ben nota e, soprattutto nei primi decenni del Novecento, dal primo rione Luzzatti (quello dell’Amica Geniale) al quartiere Loggetta o agli edifici dei Colli Aminei e a tanti altri, ha in catalogo quartieri ben progettati e ben costruiti, in aree che sono diventate poi centrali, anche se i servizi di prossimità a standard al massimo erano quelli della metà del Novecento: poche aiuole, la chiesa e la scuola vicine e talvolta l’area mercatale.

Dagli anni Sessanta è prevalso il modello di massa, riferito all’unità di abitazione. Un grande complesso di centinaia di alloggi, localizzato in periferie sempre più distanti e mal collegate al centro, a cui si arriva utilizzando grandi strade urbane, in qualche caso progettato con la previsione di spazi interni per servizi. Un modello che ha avuto diverse declinazioni. Il più noto è quello del Corviale a Roma ma anche le Vele che avrebbero riproposto l’habitat del vicinato ha avuto la sua tragica notorietà.

Gli effetti perversi di vivibilità, spesso prevedibili, sono stati causati da limiti nelle realizzazioni che spesso hanno ridotto la qualità prevista nel progetto, come pure da eccesso di concentrazione di popolazione molto povera: spesso famiglie occupanti che di fatto hanno costituito nuclei di diseredati che hanno sofferto e riprodotto contesti di trappole di povertà. L’assoluta mancanza di manutenzione degli edifici, la carenza spesso totale dei servizi entro un contesto di welfare straccione imparagonabile agli standard delle città europee hanno completato il quadro di degrado e di ampia riproduzione delle dinamiche di disuguaglianza.

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A Scampia – già dal preesistente e molto più vivibile rione Monterosa - c’è sempre stata una varietà di ceti. In realtà i gruppi sociali molto fragili sono una minoranza rispetto al totale anche se, vivendo carriere di povertà anche tragiche, sono molto esposti nelle cronache, in alcuni periodi anche per il peso dei gruppi criminali e la destinazione a piazze metropolitane di spaccio.

Scampia

L’ampiezza, le condizioni di manutenzione e la gestione del parco di alloggi pubblici a Napoli costituiscono una questione complessa. Forte pressione della domanda inevasa, grande diffusione della morosità e di accessi impropri, canoni di fitto molto bassi anche in zone buone, esistenza di aree con concentrazione di forte degrado spaziale e sociale. La tragedia del crollo dei ballatoi nella vela celeste mi ha colpito ancora di più perché proprio quella sera sono tornato da un breve viaggio di studio a Vienna, città di quasi due milioni di abitanti, ove ho potuto visitare vecchi e nuovi quartieri di case popolari.

Si tratta evidentemente di un contesto radicalmente diverso per tradizione, ruolo dello Stato, modello di welfare e controllo della rendita. Basta pensare che circa Il 60% della popolazione viennese vive in case popolari o sovvenzionate. Quindi una quota ampia di viennesi (circa 500.000 persone) vive in fitto in 420.000 case non private. La città di Vienna, con 220.000 alloggi è il più grande proprietario di immobili in Europa. Oltre agli alloggi comunali, Vienna dispone anche di altre 200.000 unità abitative sociali permanenti di proprietà di associazioni edilizie senza scopo di lucro, offerte a residenti da almeno cinque anni – se non si è austriaci - e con un reddito netto di 57.000 euro a persona, o 86.000 euro netti per una coppia: un altro mondo.

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Dal più noto quartiere Karl-Marx-Hof costruito alla fine degli anni Venti sino ai più recenti quartieri di primissima periferia dell’area sud – Sonnwendviertel 5.500 case – o più lontano dal centro Seesstadt Aspern ad est, 12.500 case, un certo diverso gigantismo urbano viene riproposto. Va però considerata la cura nella progettazione, nei lavori e dei materiali (molta prefabbricazione) e nella manutenzione. Soprattutto c’è varietà di ceti e modi di abitare e una batteria di servizi di welfare oltre a livelli di occupazione imparagonabili. In ogni intervento ci sono spazi verdi e baby garden nelle corti, servizi ai piani terra per tutti, minimi spazi per il parcheggio delle auto, in una città con servizi straordinari per la mobilità, dai tram e le metro alle piste ciclabili. Una diversa idea della presenza effettiva dello Stato e del governo urbano, come dell’accessibilità per gli stranieri.

Proposte

Da anni operatori e studiosi si sforzano di proporre diagnosi e proposte per il miglioramento delle condizioni di vita nei quartieri popolari. Il Centro Nazionale di studi per le politiche urbane – Urban@it – costituito dieci anni fa, che aggrega sedici importanti università italiane oltre alla Società Italiana degli Urbanisti, fra l’altro realizza un rapporto annuale. Nel 2019 ho coordinato il rapporto sulle periferie dopo che alcuni di noi erano stati ascoltati dalla Commissione parlamentare per le periferie (che esiste ancora).

La relazione finale di quella commissione riprendeva la nostra proposta di prevedere un programma nazionale di rigenerazione delle periferie non limitato o centrato sul trattamento dello spazio fisico ma, pur nella prospettiva di una rigenerazione territoriale, finalizzata ad abbassare la soglia di esigibilità dei diritti, con il massimo coinvolgimento delle esperienze migliori di terzo settore nell’erogazione di servizi e un possibile protagonismo degli abitanti. Un programma centrato sull’attivazione di agenzie locali di servizi di tipo integrato.

In realtà, anche per il PNRR, con vincoli temporali vessatori, in Italia oggi molti soldi sono destinati alla «rigenerazione delle periferie» ma resiste un approccio centrato sul lavoro di urbanisti, architetti, giuristi e tante imprese edili. L’attivazione di agenzie locali per servizi, sostegno al reddito, occupazione, resta ai margini o al massimo prevede un qualche accompagnamento sociale, talvolta condito con finti processi partecipativi. Invece proprio studiando le storie di riproduzione delle carriere di povertà o di emancipazione dalla dipendenza, si vede che, insieme ad un civile tetto sulla testa, l’accesso duraturo e pluridimensionale ai servizi, dalla mobilità all’educazione già dalla prima infanzia, sino alla socializzazione al lavoro, per molti è la chiave di una effettiva possibile mobilità sociale.

Particolare attenzione merita il programma comunale, molto innovativo, appena avviato a Taverna del Ferro a Napoli che, accanto all’abbattimento delle due stecche di alloggi ove vivono 360 famiglie, con relativa ricostruzione di nuove case, prevede un investimento di 3,6 milioni di Euro in due anni, fondamentalmente destinati ad interventi socio educativi. Una sfida assunta dall’Amministrazione comunale che va seguita con attenzione.

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