La felicità è un attimo. Più difficile è intendersi su quanto lungo sia, questo attimo. Per il Thiago Motta allenatore la felicità è durata lo spazio di una stagione. Non questa alla Juventus, non esageriamo. Ma a Bologna, la sua ville lumière. Neanche un anno è passato dal suo addio triste y tormentato dal club rossoblù e a Torino già raccolgono cocci e frattaglie: la squadra è stata eliminata in fretta dalla Supercoppa, dalla Champions League è uscita senza gloria né onore, in campionato arranca (si punta al 4° posto: si salvi chi può), ma è con la Coppa Italia che si è passato il segno.

L’eliminazione per mano dell’Empoli (Empoli versione C, di terza classe, lo ha definito qualcuno) ha squarciato il velo. E quel che c’è sotto è come alla ricerca del tempo perduto.

Quanto sembrano lontani i tempi d’oro, quando si parlava di thiagomottismo, e una città come Bologna passava dalla medietà (erano anni che i rossoblù veleggiavano a metà classifica) fin su su su, fino alla Champions League, sessant’anni dopo l’ultima volta. Dal dionisiaco ai calci di rigore splatter di Empoli è stato un attimo. Dai baccanali bolognesi alle critiche in diretta tv. Dalla gente che lo fermava per strada, gli diceva grazie, novello papa, imperatore, visionario, profeta persino, a oggi, Thiago Motta allenatore comune. Peggio. Uno capace di perdere una partita banale.

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Il senso di una fine

Oplà, il calcio di Motta. Una giravolta, un sogno, un incanto. Elogi e cuoricini: nemmeno il corteggiamento di un intero popolo era bastato per convincerlo che restare un anno ancora tra i vicoli e i portici gli avrebbe fatto bene. Se non altro per prolungare quell’attimo, l’alto godimento. Scusate se è poco. Troppo forte il richiamo della Juventus, il magnetismo di un’altra grandeur (e perché no: pure di un contratto da diversi milioni di euro). E allora addio Bologna, addio giorni felici. Velasco dice sempre che nessuno potrà toglierci quello che abbiamo ballato. Tutto vero.

Ma nella sconfitta di coppa contro l’Empoli, l’ennesima di un campionato tormentato, forse la più sciagurata della gestione Motta, si annida il senso di una fine. Che non è politica, né agonistica. È semmai morale. «Mi vergogno molto, anche di me, perché non sono riuscito a trasmettere ai miei giocatori l'importanza della partita», ha detto Thiago dopo averla persa.

L’Empoli, vedi un po’ il destino, fu il primo avversario della sua gestione a Bologna. Motta perse (1-0), e dal Dall’Ara la gente tornò a casa tra perplessità e sconforto. Poi la magia, l’incantesimo, un mercato estivo da black friday (fatto all’ultimo dopo che lo stesso tecnico aveva chiesto disperatamente rinforzi) e la cavalcata verso la storia. Tutto troppo.

La notte della qualificazione alla Champions, a Casteldebole, il centro tecnico rossoblù, fu il delirio (troverete prove su YouTube). Già si sussurrava tra le vie strette di Bologna che Motta non sarebbe rimasto, e allora tutti lo implorarono di restare. Che bello quando eravamo re.

La peggiore Juve degli ultimi anni

Ma il destino, si sa, è un attimo e ti si rivolta contro. A Torino si presentò con fare da generale: «Ho la convinzione che si possa aprire un ciclo molto interessante, voglio una Juve orgogliosa e felice dopo ogni partita». La felicità è un attimo. Invece alla Juventus è stato tutto un inseguire: i tagli di inizio stagione (via sette giocatori tra cui Chiesa, e Fabio Capello che oggi dice: «Alla Juve servirebbe un Chiesa»), i tanti pareggi, le lotte gladiatorie con Vlahovic e Danilo (tanto il Cesare è lui, Motta), e poi un gioco non bello come quello che aveva fatto vedere a Bologna.

Gli hanno fatto i conti in tasca: a gennaio la sua era la peggior Juve degli ultimi 14 anni (dopo 19 partite) mentre quella della sua nemesi, Max Allegri, la migliore. Motta per lunghi mesi ha abbozzato, flemmatico. Dopo il ko contro l’Empoli non si è tenuto più. «Proviamo vergogna». «Ci serve un esame di coscienza collettivo». «Non è stato un problema tecnico, tattico, ma di atteggiamento. Nessuno si è preso una responsabilità. Inammissibile. Dobbiamo chiedere scusa alla storia di questo club». «Spero che le critiche siano forti. Il nostro pubblico è stato fin troppo gentile con noi».

La pazienza

Fingiamo che lo sport sia tutto business e money ma, come l’arte, è sui sentimenti che si fonda. Thiago Motta pensava di portarsi via la felicità da Bologna: un trasloco qualunque, tra scatoloni, schemi tattici e preparazione atletica. Ma this is football, bellezza. Non puoi replicarti dappertutto, ed è anche questo il bello dello sport. Certo, persino Motta avrebbe bisogno di più tempo, di pazienza, di sostegno. Cose che, per istituzione, la Juventus concede quanto basta.

Qualcosa si è rotto. E non è detto che si possa aggiustare. Da secoli l’uomo si interroga sul senso della vita e su cosa sia questa benedetta felicità. Si può afferrare? È dentro di noi o dipende da ciò che sta fuori? E quanto dura? Rimpiangiamo il passato, immaginiamo un futuro radioso.

Ma poi c’è il presente, ed è con quello che bisogna fare i conti. Salati, salatissimi quelli che il calcio sta presentando a Thiago Motta. Va beh, ci consoli il Trilussa: per lui la felicità tutto sommato è una piccola cosa. Prendiamo nota.

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