Salari bassi per gli insegnanti, non per i presidi, record di abbandono scolastico e donne discriminate. I mali dell’istruzione italiana fotografati nel rapporto Ocse “Education at a Glance 2022 - Uno sguardo sull'istruzione” che dedica al nostro paese una particolare attenzione
- Il rapporto dell'Ocse «Uno sguardo sull'istruzione 2022 - Education at a Glance 2022» analizza i sistemi educativi dei 38 paesi membri dell'Ocse, più Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Arabia Saudita e Sud Africa
- Negli ultimi vent'anni nel nostro paese i livelli d'istruzione sono cresciuti, ma più lentamente degli altri paesi.
- In Italia, la quota dei NEET, tra i 25 e 29 anni ha toccato il 31,7 per cento durante la pandemia da Covid-19, arrivando a quota 34,6 per cento nel 2021
Fare gli insegnanti in Italia non conviene. A sancirlo è il report dell'Ocse «Uno sguardo sull'istruzione 2022 - Education at a Glance 2022», il principale compendio internazionale di statistiche nazionali comparabili che misurano lo stato dell'istruzione nel mondo che è stato presentato questa mattina da Save the Children e fondazione Agnelli. Le retribuzioni dei docenti italiani sono basse e poco dinamiche, rendendo la professione poco attraente rispetto agli altri paesi Ocse dove i salari vanno in media dai 42mila dollari del livello pre-primario a più di 53.500 della secondaria di secondo grado, mentre in Italia si collocano a livelli inferiori, rispettivamente a 40mila e 46mila dollari.
Insegnanti contro presidi
Anche le dinamiche nel tempo impressionano: dal 2015 al 2021 la retribuzione media Ocse di un insegnante di scuola secondaria di primo grado è aumentata del 6 per cento, ma in Italia l’incremento è stato solo dell’un per cento. Interessante, infine, il confronto nei diversi paesi fra la retribuzione degli insegnanti e quella degli altri laureati. Nel 2021 in Italia un docente di secondaria di primo grado ha guadagnato il 27 per cento in meno di un lavoratore full-time laureato. La retribuzione dei dirigenti scolastici è invece dappertutto in genere superiore a quella di un lavoratore full-time laureato: nella media Ue è più alta del 31 per cento, ma in Italia addirittura del 73 per cento.
Non si è fatto mancare il commento degli insegnanti a questi dati «sono una realtà che già conoscevamo: stipendi dei docenti italiani agli ultimi posti nella classifica dei paesi aderenti all'organizzazione e investimenti nella scuola sotto la media Ocse di oltre un punto percentuale. Se continueremo a procedere su questa strada, condanneremo l'Italia a non avere un futuro, perché un Paese che non investe nell'istruzione è destinato a non crescere», dice Rino Di Meglio, coordinatore nazionale del sindacato Gilda degli insegnanti che a questo punto lancia un appello al prossimo governo per poter lavorare a un adeguamento delle retribuzioni agli altri paesi. Anche il resto non sono rose e fiori però.
Il rapporto che analizza i sistemi educativi dei 38 paesi membri dell'Ocse, più Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Arabia Saudita e Sud Africa segnala che negli ultimi vent'anni nel nostro paese i livelli d'istruzione sono cresciuti, ma più lentamente degli altri paesi e l'Italia resta uno dei 12 paesi dove la laurea non è il titolo di studio più diffuso nella fascia d'età tra i 25 e i 34 anni.
Il 31 per cento lascia l’università
Questo è dovuto al fatto che solo uno studente su due decide di iscriversi a una facoltà dopo il diploma, ma che di questi circa il 31 per cento abbandona entro i tre anni gli studi. E poi ci sono i ragazzi che non studiano e non lavorano, i cosiddetti NEET, ai quali l'Ocse dedica un'attenzione particolare. In Italia, la quota dei NEET, tra i 25 e 29 anni ha toccato il 31,7 per cento durante la pandemia da Covid-19, arrivando a quota 34,6 per cento nel 2021, «con il rischio - si legge nel rapporto - di perpetuare il circolo vizioso che va dalla povertà economica a quella educativa».
La percentuale di NEET varia a seconda del genere: è più alta tra le giovani donne rispetto ai loro coetanei maschi in molti paesi dell'Ocse. In Italia, il divario di genere è relativamente basso nella fascia tra i 15 e i 19 anni (12,3 per cento per le donne e 12,7 per cento per gli uomini) e in quella tra 20 e 24 anni (30,5 per cento per le donne e 29,7 per cento per gli uomini), ma si amplia nella fascia 25-29, in cui il 39,2 per cento delle donne non studia e non lavora contro il 30,3 degli uomini.
Il legame tra titolo di studio ottenuto e livello di occupazione è particolarmente forte, soprattutto per le donne, anche se risultano guadagnare meno rispetto ai colleghi uomini. Nel 2021, solo il 31 per cento delle donne in possesso di un titolo d’istruzione inferiore al diploma di scuola superiore erano occupate contro la media Ue del 40 per cento, mentre fra le donne laureate il tasso di occupazione era del 70 per cento (media Ue 83 per cento). Per gli uomini, invece, le differenze sono meno marcate: si va dal 64 per cento di occupati tra chi ha un livello d’istruzione inferiore al diploma secondario (media Ue 66 per cento) al 71 per cento di occupati tra i maschi laureati (media Ue 88).
«Garantire l'aumento del tasso di istruzione universitaria va a beneficio del tessuto economico-sociale del Paese - ha commentato Daniela Vuri, prorettrice alla Ricerca dell'università di Tor Vergata - e l'orientamento progettato già a partire dalla scuola secondaria di primo grado e progetti specifici possono rivelarsi la chiave per avvicinare le studentesse alle materie STEM colmando il gender gap nei salari che esiste nel mercato del lavoro».
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