Era ottobre 1984 quando Sergio Mattarella, all’epoca giovane e riservato professore, dopo aver sorretto il corpo del fratello Piersanti morente, si ritrovò a dover rianimare una città devastata dai mitra e dal malaffare. Fu il prodromo di una rivoluzione civile tra le più cruciali del secondo Novecento
La Primavera di Palermo, quell’anno, cominciò in autunno. Era il 29 ottobre 1984, esattamente 40 anni fa, quando il fresco deputato moroteo Sergio Mattarella fu nominato commissario provinciale di una Democrazia cristiana che, in un anno, e più vorace di Saturno, e nonostante la maggioranza assoluta a Palazzo delle Aquile, aveva divorato cinque sindaci e due commissari di partito.
Solo un mese era passato dalla storica retata della Notte di San Michele, che sarebbe confluita nel Maxiprocesso a Cosa nostra. E quella nomina metteva all’angolo lo strapotere dei due ras, Salvo Lima e Vito Ciancimino.
L’ancor giovane e riservato professore, dopo aver sorretto il corpo del fratello Piersanti morente, si ritrovò quattro anni dopo a dover rianimare una città devastata dai mitra e dal malaffare. Fu il prodromo di una rivoluzione civile tra le più cruciali del secondo Novecento.
una città in agonia
Gli avvenimenti che seguono, e che porteranno sei mesi dopo alla prima sindacatura di Leoluca Orlando, sono così innumerevoli e a perdifiato che converrà procedere adelante, ma con giudizio, come il Manzoni fece dire al Gran Cancelliere di Milano la cui carrozza era circondata dal popolo in tumulto per la carestia subentrata alla peste.
Alle 9,45 del 3 novembre il jet privato di Ciriaco De Mita atterrava a Punta Raisi, era il primo di tre viaggi in poche settimane del segretario nazionale della Dc. Noi cronisti avevamo ricevuto un programma generico, quasi top secret per motivi di sicurezza. A quel tempo era più facile morire nella nostra città che in qualsiasi altra infestata dal colera.
«È diretto da Pappalardo», disse a sollievo la voce al telefono. Quando arrivammo in arcivescovado, De Mita era già entrato e Mattarella in attesa volle precisare per riservatezza: «È una visita di cortesia, non politica». Passò un’ora intera a tu per tu, uno scambio di saluti dura meno. In concreto il cardinale, che aveva già tuonato contro la mafia e la malapolitica ai funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa – la Sagunto espugnata – e più recentemente contro la Dc locale – «Spettacolo sconsolante offerto dal partito di ispirazione cristiana e dal suo malgoverno» – offriva la sua benedizione agli uomini del rinnovamento.
I quali si ritrovarono a curarsi di una grande città in agonia. Perché, mentre la metropoli lombarda era divenuta la “Milano da bere” dei socialisti gaudenti, Palermo non era ancora fuori dalla seconda guerra di mafia con mille morti e 500 lupare bianche; il Massimo, il terzo teatro lirico più grande d’Europa dopo Parigi e Vienna, chiuso da dieci anni per manutenzione, i disoccupati tre volte in più della media nazionale, le scuole con doppi turni, l’immenso centro storico ancora semidiroccato dalla guerra, strade deserte alla chiusura dei negozi, borgate al buio o prive di manutenzione per via delle grandi municipalizzate come Icem e Lesca, le cassaforti di Cosa nostra, che mestavano nel torbido.
«Palermo come Beirut», aveva titolato un anno prima il giornale L’Ora a tutta copertina – titolo rimasto leggendario – descrivendo la via Pipitone Federico devastata dall’auto bomba che aveva ucciso il giudice Rocco Chinnici, l’inventore del pool antimafia.
L’arresto di Ciancimino
Il 3 novembre è il momento topico della rivoluzione palermitana. Mentre Sergio Mattarella s’insedia nell’ufficio provinciale dc di via La Lumia, dove erano già spariti i manifesti di Lima, un Vito Ciancimino dai baffoni neri va via in manette. O meglio, la foto di Letizia Battaglia ritrae l’assessore del sacco edilizio – tremila licenze rilasciate in una notte - quasi afflosciato da presunto malore e sorretto da due poliziotti. «È nelle mani dei Corleonesi”, aveva raccontato Masino Buscetta a Giovanni Falcone.
Nove giorni dopo, finiscono in cella per associazione mafiosa i cugini Ignazio e Nino Salvo, potenti titolari delle esattorie siciliane, fedelissimi di Lima e Andreotti. Crollano i santuari inviolabili ed è come un via libera da Roma e forse anche da Washington.
Cosa nostra aveva oltrepassato ogni limite anche negli States: dalle raffinerie palermitane e trapanesi arrivavano in volo, anche nei valigioni di innocue casalinghe, tonnellate di eroina che seminano morte per overdose tra migliaia di giovani americani; a New York è in corso una guerra di cosche, il crac bancario di Michele Sindona, ora estradato e rinchiuso a Rebibbia, ha provocato caos finanziario a Manhattan.
Ecco che il pool di Falcone e la procura distrettuale guidata da Rudolph Giuliani sono in piena sintonia. Frequenti e fruttuosi i viaggi nelle Americhe dei giudici siciliani, in Canada scoprono un bel pugno di miliardi in cassette di sicurezza, una fetta del tesoro di Ciancimino.
Poi verrà fuori lo scoop del “Wall Street Journal”, fonte il Dipartimento di Stato, sul generale Dalla Chiesa: la mattina del 3 settembre 1982 il prefetto di Palermo incontra il console Usa e chiede l’aiuto del suo governo per ottenere quei poteri antimafia che Roma non gli garantiva. Ma non ci fu tempo, poche ore dopo venne crivellato, insieme con la moglie e l’autista, in via Isidoro Carini.
Palermo è ormai un fiume in piena. Si organizzano i cattolici del dissenso attorno a “Città per l’uomo” e ai gesuiti Pintacuda e Sorge. Si ribellano i “parroci antimafia”. Il trentenne don Cosimo Scordato, che aveva guidato la prima marcia di protesta – diecimila in corteo nel cosiddetto “triangolo della morte” - da Casteldaccia a Bagheria, fonda il centro sociale San Saverio nel quartiere Albergheria, laboratorio di volontari e intellettuali.
Nascono il Coordinamento antimafia, il Centro Impastato, le Donne contro la mafia, le riviste.
il vento che cambia
Ma torniamo a Palazzo delle Aquile. Nel febbraio 1985 s’insedia il nuovo commissario comunale, l’integerrimo prefetto di Trapani Gianfranco Vitocolonna. Mentre nasce il partito del garantismo peloso che difende lo status quo, Palermo fibrilla e fa paura: continui allarme-bomba, un omicidio a giorni alterni, spesso bersagli i parenti dei pentiti. Masino Buscetta, ultimo di diciassette figli, sarà punito con la morte di undici familiari. Vitocolonna, costretto dai quartieri al buio, firma l’ennesima proroga del contratto alla Icem, l’azienda succhia soldi che gestisce l’energia elettrica pubblica. Due giorni dopo, un commando falcia il patron Roberto Parisi, tra l’altro presidente della Palermo calcio.
Sui tentacoli delle municipalizzate, che costavano il doppio rispetto a una città ben più grande come Torino, erano scivolati sindaci e assessori e si consumerà il misterioso omicidio dell’ex primo cittadino Giuseppe Insalaco, lasciato solo in balìa della Piovra. «Sì, certo, ho paura», balbettò ai cronisti dopo aver rassegnato in giunta le sue dimissioni.
Vitocolonna poi apre l’uovo di Colombo e scardina il sistema con un semplice atto burocratico: per la prima volta sarà indetto l’appalto sui miliardari servizi comunali. Siamo alla vigilia delle elezioni di maggio. Mattarella compila di proprio pugno la lista dei candidati Dc, depennando due terzi dei consiglieri uscenti, mutano gli assetti regionali, pur restando in agguato i vecchi marpioni della politica.
Il vento è cambiato. Leoluca Orlando è il nuovo sindaco di un pentapartito, non ha ancora 38 anni, prepara grandi sorprese. Cosa nostra risponde con gli ultimi dolorosi omicidi eccellenti, Beppe Montana e Ninni Cassarà, investigatori di razza, amici e colleghi. Poi le armi tacciono. È in costruzione l’Astronave, come chiamò l’aula-bunker Giampaolo Pansa in un memorabile reportage ad apertura di maxiprocesso. La Primavera è appena cominciata e dovrà passare attraverso altri inverni.
Quel che avvenne poi fu la cavalcata di Orlando come un Don Chisciotte sulla luna, ma nel senso che gli diede Dario Fo, cioè visionario e sognatore, l’incarnare l’antimafia che piacque più tra gli indigenti che nelle case patrizie, la cultura per tutti, in giunta con i comunisti, l’abbandono della Dc e la nascita e la breve vita della Rete che pur affrettò il tramonto dei partiti.
Palermo laboratorio nazionale, si disse, perché germinò semi per il Partito dei sindaci, fino a Mani pulite e alla Seconda Repubblica. Ma questa è un’altra storia e ne potremo riparlare.
© Riproduzione riservata