Mentre migliaia di docenti di scuola secondaria aspettano con ansia i bollettini delle supplenze sperando in maternità e aspettative dei colleghi per poter salire in cattedra entro Natale e lavorare almeno qualche mese, i siti degli uffici scolastici provinciali sono già subissati dagli interpelli per le scuole primarie, la procedura in extremis per l’arruolamento degli insegnanti, che su questo grado sono quasi introvabili in tutto il centro-nord.

Dal 2001 è richiesta una laurea in Scienze della formazione primaria – prima quadriennale, dal 2013 quinquennale – per abilitarsi alla professione di docente alla scuola dell’infanzia e primaria, percorso con sbarramento iniziale con numero di posti a bando deciso ogni anno dal ministero.

Il ciclo universitario dura cinque anni, con numerosi crediti per laboratori e tirocini, spesso da svolgere in scuole lontane dalle sedi universitarie, che si devono accreditare presso le università e far frequentare corsi specifici ai propri docenti tutor.

Tutto questo, naturalmente, se si passa il famigerato test d’ingresso che è unico in tutto il territorio nazionale e che si è tenuto il 13 settembre. È lo stesso film dei test di medicina, se non che con il suo magro stipendio un insegnante riesce a raggiungere una stabilità economica molto più avanti rispetto a un medico.

Da anni la Cgil Flc scuola denuncia la situazione che sfavorisce sempre di più l’avvio alla professione degli ex maestri elementari: non solo per lo sbarramento iniziale, con troppi pochi posti disponibili rispetto al fabbisogno, ma anche per una mancata programmazione che tenga conto della durata degli studi e l’assenza di un coordinamento tra ministero dell’istruzione e quello dell’università per colmare il divario tra domanda e offerta.

I posti a bando, l’anno scorso poco più di undicimila, sono aumentati sì dal 2021, ma sono briciole a fronte dei pensionamenti – senza contare che secondo l’università di Bologna il numero di studenti laureati effettivi cinque anni dopo, tra ritardi e abbandoni, è circa la metà. Si parlerebbe già di emergenza nazionale se non fosse che per sopperire alla carenza cronica di docenti di primaria, da anni si ricorre allo smodato utilizzo delle Mad (messe a disposizione), ora denominate interpelli. Che consentono ai docenti con titoli non abilitanti di candidarsi per cattedre vacanti una volta esaurite le graduatorie, con selezione a discrezione dei singoli istituti.

Nel 90 per cento dei casi si tratta di insegnanti con titolo di studio per la scuola secondaria che non hanno punteggio per lavorare insegnando le materie di competenza e ripiegano sulla scuola primaria: contratto e stipendio sono esattamente gli stessi dei colleghi abilitati, senza però aver seguito un percorso di formazione e didattica per l’insegnamento ai più piccoli, nemmeno un tirocinio universitario.

Sulla loro preparazione accademica non ci sono dubbi e sulla buona volontà nemmeno, ma chi ha seguito per cinque anni un percorso su misura per la primaria, si trova spesso a dover condividere il posto di lavoro con professori in attesa di una chiamata dalla scuola secondaria che devono reinventarsi e che non garantiscono alcuna continuità.
Questa situazione non basta a convincere il ministero a mettere a bando un numero di posti per scienze della formazione primaria che sia realmente rispondente ai bisogni dei territori, ma si rimane in un circolo vizioso di professori disoccupati che vanno a supplire i maestri mancanti fino a che i posti rimarranno scoperti, per continuare a dire immancabilmente ogni settembre che mancano gli insegnanti.

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