Mohamed Dihani, attivista di origine saharawi, è uscito dal tribunale civile di Roma alla fine dell’udienza sorridendo, di fronte alle decine di persone che hanno deciso di sostenerlo nel suo lungo e complesso percorso per ottenere la protezione internazionale. «Sento di avere la protezione internazionale grazie a tutte le persone e le organizzazioni come Amnesty International e A Buon Diritto che mi dimostrano la loro vicinanza», dice. Non è ancora chiaro quale sarà l’esito del suo ricorso contro il rigetto della Commissione territoriale, che probabilmente arriverà in autunno. 

Intanto però sui cartelli gialli di Amnesty, tenuti tra le mani da amici e amiche, si legge che il Marocco non è un paese sicuro. Il paese è stato infatti aggiunto nella lista del ministero degli Esteri dei paesi sicuri. Provenire da uno stato inserito in quell’elenco significa avere meno garanzie, un iter più rapido e dover provare perché quel paese, nel caso specifico, non è da considerarsi sicuro. 

Dihani è attivista, giornalista e difensore dei diritti umani, ed è stato vittima dall’età di 9 anni di plurimi atti di persecuzione per motivi politici da parte delle autorità marocchine. È stato fermato per la prima volta mentre partecipava a una manifestazione pacifica per l’autodeterminazione del popolo saharawi, che dal 1975 vive in parte nei campi profughi in Algeria e in parte nella regione del Sahara occidentale, occupata dal Marocco, paese che esercita da decenni una violenta repressione.

Trattamenti inumani, tortura, detenzioni arbitrarie da parte delle autorità marocchine, sono alcune delle violazioni rilevate da diversi rapporti di organismi internazionali. Così anche le violenze subite da Dihani sono state oggetto di numerosi report di organizzazioni, tra cui Amnesty International, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate. Grazie alle pressioni dello Human Rights Council dell’Onu, che ha qualificato la sua detenzione come arbitraria, è stato poi liberato. Per cinque anni, dal 2010 al 2015, è stato vittima di sparizione forzata e detenzione arbitraria e ingiustamente condannato dalla Corte d’Appello di Rabat, in Marocco, con l’accusa di terrorismo. 

Paese sicuro

È arrivato in Italia con l’aiuto di Amnesty e, dopo due anni dalla richiesta di protezione internazionale, ha ricevuto un rigetto da parte della Commissione territoriale, la stessa che durante il colloquio individuale aveva detto di essere a conoscenza delle torture subite in Marocco e aveva disposto un accertamento medico legale, che ha confermato le violenze subite. 

«Nel momento della decisione, sia le torture sia l’accertamento sono spariti da ogni forma di valutazione, come se non fossero mai avvenute», spiega uno degli avvocati di Dihani, Andrea Dini Modigliani. La decisione non è stata motivata nel merito ma l’attivista è stato ritenuto dal ministero dell’Interno una persona “pericolosa per la sicurezza dello stato”, senza fornire alcun fondamento. 

«Le commissioni sono emanazione del ministero dell’Interno», prosegue Dini Modigliani, «ma dovrebbero essere organi che effettuano valutazioni obiettive e imparziali e, nel caso di Mohamed Dihani, non è successo».

«La provenienza da un cosiddetto paese sicuro ha consentito alla Commissione di ricorrere alla clausola che consente di non motivare il provvedimento di rigetto e di limitarsi ad affermare che il richiedente asilo non ha allegato elementi in grado di superare la presunzione di sicurezza», spiega l’avvocata Cleo Maria Feoli. Evidenzia però che «questa clausola viene usata in modo evidentemente strumentale e così da eludere l’obbligo di motivazione, come mostra il caso di Mohamed Dihani, che ha la “fortuna” di essere documentato in modo eccezionale, grazie ai rapporti di grandi organizzazioni internazionali che hanno seguito il suo caso, rapporti ignorati dalla Commissione».

È emerso inoltre, spiega Feoli, che le informazioni alla base della decisione provengono da un paese terzo, il Marocco, che «non solo è uno stato autoritario, ma è anche l’agente persecutore» dell’attivista. 

Come già raccontato, le valutazioni dell’amministrazione sono spesso altamente discrezionali in questa materia. Una discrezionalità che però rischia di minare il diritto di difesa di un richiedente protezione internazionale: se la persona non sa quali fonti o documenti giustificano il rigetto, è complicato riuscire a difendersi. Per gli avvocati è evidente «che la Commissione non operi in modo imparziale». Sono fiduciosi nell’operato del tribunale di Roma, ma è l’unico grado di giudizio, dopo l’abolizione dell’appello con il decreto Minniti.

Segnalazione illegittima

L’attivista ha poi scoperto una segnalazione all’interno della banca dati Sis II, il sistema di informazione Schengen di seconda generazione che raccoglie dati sulla tutela della sicurezza pubblica.

Il tribunale di Roma, ordinando l’ingresso di Dihani sul territorio nazionale si era già espresso incidentalmente sulla illegittimità della segnalazione. «Il fatto che la commissione non si sia espressa al riguardo suggerisce che non si è confrontata con questa pronuncia del tribunale, tradendo principi come quello del buon andamento dell’amministrazione», sottolinea Feoli.

L’illegittimità della segnalazione è stata ribadita da una sentenza successiva dello stesso Tribunale che ha riconosciuto il diritto dell’attivista di accedere ai documenti a fondamento della segnalazione e la sua successiva cancellazione. L’avvocatura dello Stato ha però impugnato la decisione e si attende il verdetto della Cassazione.

Il protrarsi della decisione per Dihani è motivo di angoscia, racconta a Domani: «Non mi sento più sicuro nemmeno in Italia, soprattutto di fronte alle strette di mani tra i vertici delle istituzioni italiane e alti rappresentanti dello stato marocchino». Il paese, considerato dall’Italia sicuro, sta facendo la stessa cosa con altri attivisti saharawi in diversi stati europei, conclude Dihani. 

«La storia di Mohamed dimostra che il Marocco è un paese autoritario, con carceri segrete, e non può essere considerato sicuro», evidenzia Dini Modigliani. E indica la direzione in cui l’Unione europea sta andando, con la recente approvazione del patto sulle migrazioni, aggiunge Feoli: «Abbiamo una lista di paesi sicuri, sempre in aumento, e quindi un potenziale uso discrezionale di questa clausola. Cosa succederà quando l’esternalizzazione delle frontiere sarà anche fisica, in Albania ad esempio? Mohamed è un caso documentato, cosa succederà a chi invece non ha questa “fortuna”?».

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