All’età di 25 anni, una ragazza che è arrivata in Italia da bambina, ha frequentato tutte le scuole per poi iscriversi alla facoltà di medicina, non sa se potrà partecipare ai concorsi pubblici e fare carriera nel ministero della Salute, perché non è cittadina italiana. Parla perfettamente la lingua, ha passato più di 15 anni nel sistema di istruzione italiano, ma per sapere se può o meno avere la cittadinanza deve aspettare altro tempo, almeno tre anni per legge. I tempi effettivi sono però ben diversi e non è detto che la risposta sia affermativa. Con eventuali ricorsi i tempi si allungano ancora di più.

«Un bambino che è venuto in Italia quando aveva tre mesi, cosa ha visto del presunto paese d’origine? Nulla», dice a Domani Sergio Bontempelli, responsabile degli Sportelli di assistenza agli stranieri dei Comuni della provincia di Pistoia. «Si sente italiano, ma deve affrontare questo calvario», prosegue, «e questo, oltre a essere umiliante, causa un senso di grandissima estraniazione». Sono 858mila gli alunni e le alunne in Italia con passaporto straniero, il 10 per cento.

Cosa prevede La legge

Ma come si acquisisce la cittadinanza italiana? Si può ottenere in due modi, entrambi disciplinati dalla legge 91 del 1992, un dettato normativo che diversi giuristi considerano già datato; una legge nata «vecchia» perché non considera i mutamenti della società italiana. C’è lo ius soli, per chi nasce sul territorio italiano da genitori stranieri, e ha diritto a chiedere la cittadinanza al compimento dei 18 anni: bisogna dimostrare di essere stato residente in Italia senza interruzioni dalla nascita alla maggiore età. La cittadinanza si può poi acquisire anche per naturalizzazione, se ci si è stabilizzati nel paese. Nel primo caso è un diritto, nel secondo una concessione.

In quest’ultima ipotesi, la persona in questione potrà fare richiesta di cittadinanza alla prefettura – che la invierà al ministero dell’Interno – se ha sposato un cittadino o una cittadina italiana, oppure se è residente in Italia da almeno dieci anni (quattro per i cittadini Ue). Come Domani peraltro ha già raccontato, non si tratta di un automatismo, ma di una concessione dello stato, di una procedura fortemente discrezionale affidata al Viminale. Mentre negli ultimi anni il dibattito pubblico si è concentrato quasi esclusivamente sullo ius soli, è invece proprio il canale della naturalizzazione la principale forma di acquisizione della cittadinanza italiana, come avviene nel 60 per cento dei casi.

Secondo Bontempelli «la procedura di naturalizzazione è gestita da sempre dalle burocrazie ministeriali, che hanno una concezione molto restrittiva della nazionalità, ed è diventata sempre più discrezionale». E continua: «In base a questo orientamento, possono rifiutare la cittadinanza anche quando il richiedente ha tutti i requisiti per ottenerla». È una realtà certificata anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha permesso al Viminale, con diverse pronunce, di non concedere la cittadinanza a uno straniero a prescindere dall’esistenza di una condanna penale. Una discrezionalità che porta al rigetto della maggior parte dei ricorsi.

Inammissibilità

Prima ancora che la domanda venga valutata nel merito, ci sono ostacoli formali da superare. Per esempio, come spiega Bontempelli, «nei paesi di lingua slava – come Russia, Bulgaria e Ucraina – tutti i cittadini hanno, oltre al nome e al cognome, un terzo appellativo chiamato “patronimico”, derivante dal nome del padre». 

Accade, dunque, che le domande di cittadinanza presentate da chi ha queste nazionalità vengano respinte dalle prefetture, per inammissibilità, senza essere esaminate nel merito. Il sistema non riconosce l’appellativo patronimico perché non presente nelle anagrafi italiane. E tale rifiuto non può essere impugnato in tribunale dato che, secondo la normativa, la domanda viene respinta pregiudizialmente prima di essere protocollata ed esaminata.

Lo stesso accade con i luoghi di nascita trascritti in modi diversi. Ci sono stati casi ad esempio in cui un documento riportava “Teheran” e un altro “Tehran” (semplicemente con una vocale in meno). L’esito è stato un rigetto. È sulle difformità linguistiche che si è costruita nel tempo una barriera che impedisce di presentare le domande. «Anche per piccole discrepanze nei documenti, la prefettura rigetta le domande. I richiedenti sono costretti a inviare di nuovo il modulo e a rifare, se scaduti, i documenti rilasciati dal paese di origine», spiega Bontempelli.

Gli ostacoli

Oltre al requisito della residenza, ai certificati di nascita e al casellario giudiziale del paese di origine, per chiedere la cittadinanza servono anche requisiti di lingua e reddito. «È un grande ostacolo, vista la precarietà lavorativa soprattutto per i giovani. Non sempre è facile avere un contratto e dimostrare i guadagni», precisa Daniela Ionita, presidente del movimento Italian* senza cittadinanza. È complesso avere anche una residenza continuativa, perché «il padrone di casa davanti a una persona straniera non sempre si vuole prendere la responsabilità di avere la residenza a carico, e il buco di residenza è uno dei principali motivi di rigetto», aggiunge.

Garantire la presenza continuativa sul territorio italiano impone ai giovani di rinunciare a offerte di lavoro all’estero. L’attesa è il fulcro: «Oltre a non poter lasciare l’Italia per dieci anni, si aggiunge il tempo perso per aspettare il risultato della domanda. Questo significa anche lasciar andare occasioni di lavoro o formazione», sottolinea Ionita. Soprattutto per quanto riguarda posizioni di rappresentazione politico-sociale.

Riconoscere l’identità

Si intersecano poi diverse forme di discriminazione, per il colore della pelle, l’orientamento religioso o sessuale, che influenzano il trattamento ricevuto dai richiedenti all’interno degli uffici pubblici.

«Anche dopo anni, se si è ottenuto il documento, non si viene considerati al 100 per cento cittadini italiani», continua Ionita, che con il movimento riceve decine di testimonianze. La società italiana, precisa, «è molto indietro nel riconoscere l’appartenenza e l’identità delle persone con background migratorio».

Le definisce «micro violenze quotidiane» che provocano, soprattutto per chi è razzializzato, «depressione, perché la loro identità di persona nata o cresciuta in Italia non viene riconosciuta».

Riforma mancata

Quando il governo Meloni si è presentato per la prima volta in parlamento, il deputato del Pd Matteo Orfini ha presentato una proposta per riformare la legge sulla cittadinanza. Secondo Orfini, alla luce dei mutamenti che hanno interessato la struttura demografica, sociale e culturale italiana, serve una riforma perché la mancanza della cittadinanza, specie per le persone più giovani, vìola il principio costituzionale dell’uguaglianza, precludendo loro, ad esempio, la possibilità di partecipare a concorsi pubblici.

Peccato però che nelle scorse legislature tutti i tentativi di riforma siano stati affossati da entrambi gli schieramenti. Nel 2015 il disegno di legge fu approvato in prima lettura alla Camera, ma oltre un anno dopo fu bocciato dal Senato.

Orfini riconosce l’errore storico di non aver posto la fiducia da parte dell’allora governo delle “larghe intese” a maggioranza di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni. E dice a Domani: «Oggi resta una nostra assoluta priorità. Allora ci fu un errore di valutazione politica, io e Luigi Zanda chiedemmo di porre la fiducia, ma la paura di mettere a rischio la tenuta del governo, dato che Angelino Alfano non la voleva, ebbe la meglio su una questione che rimane di giustizia, per migliaia di persone».

L’articolo 3 della Costituzione sancisce l’uguaglianza, il pari accesso ai diritti di tutte le persone. Sono un milione gli italiani senza cittadinanza. «La legge sulla cittadinanza – conclude Ionita – ha 32 anni e viola il principio costituzionale».

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