L’attivista curdo-iraniana uscita martedì dal carcere, dopo la revoca della custodia cautelare, è ora libera e attende l’ultima udienza del processo. «Dopo 300 giorni di prigione ci vuole tempo per recuperare, soprattutto la mia salute mentale», racconta
«Ho sempre avuto fiducia nella giustizia». Maysoon Majidi è uscita dal carcere di Reggio Calabria da due giorni, dopo la revoca della custodia cautelare decisa dal collegio del tribunale di Crotone. Ne ha però passati quasi trecento in cella e «nessuno mi ripagherà un anno di vita», ha detto in aula. Attivista curdo-iraniana, giornalista e laureata in regia teatrale. Anche se reclusa perché accusata di aver aiutato il capitano della barca che ha raggiunto dalla Turchia le coste italiane, ogni volta che ne aveva occasione faceva sentire la propria voce.
Non si è arresa alla versione dell’accusa e, in un corpo esile che è arrivato a pesare 38 chili, ha sempre tenuto salda la sua posizione: «Mio padre si è venduto tutto per il viaggio, cosa manca per farvi capire che non sono una scafista?», ha detto in tribunale prima che il presidente annunciasse la sua scarcerazione. Il processo prosegue e dovrebbe concludersi a fine novembre. «Ci vuole tempo per recuperare, soprattutto la mia salute mentale», racconta, intanto il primo piccolo gesto di normalità è stato andare dal parrucchiere.
Come si sente?
Mi sento meglio ma ci vuole tempo, non devo dimenticare. Io non mi sono sentita sola ma ci sono tantissime persone detenute. Vivono in celle chiuse, bisogna aiutarli, tutti. Chi è fuori deve aiutare chi è recluso ad avere giustizia. Il mio sogno è che tutti siano liberi. Non voglio dimenticare, ma voglio per quanto mi è possibile fare qualcosa per aiutare tantissime persone che vivono lo stesso dolore che ho provato io, anche se con storie diverse e problemi diversi.
Come definisce la libertà?
Il mio pensiero, la mia ideologia, è che prima di essere curda sono un essere umano. Così come tutte le persone, di qualsiasi nazionalità, è importante considerarci tutti esseri umani. Il colore del sangue è lo stesso, nel Dna nessuno ha scritto la sua nazionalità. Tutti proviamo dolore e in tutto il mondo i diritti delle donne e i diritti umani sono limitati. Ovunque ci sono persone che non hanno la possibilità di studiare.
Cos’ha provato appena hai sentito il giudice dire che sarebbe uscita dal carcere?
Ho passato quasi trecento giorni in galera. Se non si prova, non si capisce. Dieci mesi possono sembrare pochi, ma sono trecento giorni, fatti di 24 ore, fatte di sessanta minuti. Un tempo in cui aspetti. Aspetti il momento in cui pronuncino quelle parole. Avevo fiducia nella giustizia, ma ho sofferto di problemi psicologici, non solo in carcere.
I cinque giorni di viaggio sono stati bruttissimi. È stato molto pericoloso, mi metteva pressione, è stato pesante. Non riesco nemmeno a spiegare come ho vissuto e cosa ho sentito in quel momento. Ero sotto shock. Tornando al carcere, io aspettavo. Avevo fiducia, ma l’avevo anche persa, ed è stata una sorpresa la mia liberazione.
Quando aveva un po’ perso la speranza, prima che i giudici revocassero la misura, ha letto la scritta e ha detto: «La legge non è uguale per tutti».
Io ho fiducia nei giudici. Mi hanno traumatizzata le parole dell’accusa. Prima di partire, in Kurdistan, il mio nemico era grande, era il governo. Arrivata qua, le parole della pm le sentivo come un coltello.
Ha trovato alcune foto nel mio telefono, di mesi prima del viaggio, in cui con mio fratello e alcuni amici siamo andati in un ristorante a mangiare. Mi sono sentita dire che ero una turista e non una migrante. Ma il migrante può essere ingegnere o dottore, ogni persona ha una storia diversa. Il migrante non è solo una persona che muore di fame. Sono parole molto pesanti.
Sono una rifugiata, sono scappata e venuta in Europa non per fame ma per motivi politici. Sono tante le persone che scappano dall’Iran con una storia come la mia. A scendere in piazza tante persone rischiano la vita.
Mio padre è professore universitario, mio fratello ha studiato, anche io mi sono laureata. Io e mio fratello, e molti amici, siamo scappati e venuti in Europa per salvarci. Ogni persona ha una storia diversa, ci sono molti migranti della diaspora riconosciuti a livello internazionale. Io ho buttato quasi 50mila euro per questo viaggio, perché non posso spendere dieci euro per mangiare?
Qual è la sua attività? Di cosa si è occupata in Iran e in Iraq?
Ho lasciato l’Iran nel 2019. Sono cresciuta e sono diventata consapevole dei miei diritti. Ho capito cos’era la violenza, e che non potevo stare in silenzio o chiudere gli occhi.
Quando il 3 gennaio 2024 sono andata in udienza qui in Italia, ho visto una nuova immagine nella mia vita: c’era un giudice ed era donna. In Iran non è immaginabile che il presidente del collegio sia donna.
A nove anni ho iniziato a scrivere poesie, racconti, disegnavo, non in modo professionale ma spinta dal cuore. Mi piace molto il teatro. Alle superiori mi sono diplomata in matematica e fisica, ma ero appassionata di arte e all’università ho cambiato strada, decidendo di studiare regia teatrale.
Per me è fondamentale, per fare teatro devi studiare la filosofia, la psicologia, la sociologia. Il teatro è madre di tutte le arti, è molto antica, e bisogna saper leggere il carattere delle persone, il linguaggio del corpo. Il teatro è un atto politico. È considerato qualcosa di borghese ma è nato per strada, tutti ne hanno bisogno. E non è come il cinema, dove puoi tagliare e ripetere la scena. Il teatro è one shot, un momento in cui fai azione e percepisci le reazioni, senti tutto. Ma in Iran c’è la censura, ti dicono come cambiare i dialoghi e i titoli. Non c’è libertà di esprimersi.
Da cosa è fuggita?
In Iran la vita era difficilissima. Avevo problemi personali, problemi con il governo, problemi con la cultura e l’ideologia. Un’ideologia maschilista: se sei donna non devi ridere a voce alta, non devi toccare un maschio, sei donna non devi piacere. Io non sono colpevole di essere nata donna.
E poi, si aggiunge il fatto che di essere curda. Il Kurdistan ha una storia lunghissima di repressione da parte dei governi: in Iraq Saddam Hussein, in Turchia da Ataturk e ora da Erdoğan, in Iran prima con il re e poi con la Repubblica islamica.
Mentre partecipavo a una manifestazione a Erbil, in Iraq, organizzata dal movimento “Donna, vita, libertà”, tantissime persone quando parlavo con Reuters e Cnn mi accusavano di essere contro l’Islam, contro la religione. Ma la religione per me è qualcosa di personale. Credo nella libertà di religione, di pensiero, di credo, nessuno può importi cosa credere. La religione non deve comandare la società e la politica, devono essere cose diverse e separate.
Che idea si è fatta dell’Europa?
Non ho ancora visto l’Italia, ho visto solo il carcere. Non ho avuto contatto con le persone fuori, ho conosciuto solo donne detenute, che stanno da tanti anni in carcere, in condizioni difficili, in celle chiuse, tutti avevamo problemi.
Sentivo che qua c’era la democrazia, al contrario dell’Iran, dove vige la legge islamica e dove se uccidi un uomo paghi 100mila euro, se uccidi una donna paghi 50mila euro. Non posso dire che avrò un’immagine nera dell’Italia per sempre. Devo prima vedere e poi vi racconterò.
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