Dopo molte ore di udienza, per la 28enne fuggita da una repressione sanguinaria in Iran e finita in cella in Italia, prima a Castrovillari e poi a Reggio Calabria, è stata disposta la scarcerazione. L’uomo imputato per aver guidato l’imbarcazione: «Non mi ha aiutato in nessun modo»
Maysoon Majidi esce dal carcere. Il tribunale di Crotone ha revocato la misura cautelare dopo oltre 10 mesi di detenzione. La donna sembra sfinita da tutte le ore di udienza a cui ha dovuto assistere in un processo che la vede accusata di aver aiutato il capitano dell’imbarcazione, con a bordo 77 persone migranti, salpata dalla Turchia e arrivata sulle coste calabresi il 31 dicembre 2023. Attivista curdo-iraniana di 28 anni, regista, laureata in regia teatrale e cinematografica si trova a doversi difendere davanti al collegio di Crotone e non si spiega perché, fuggita da una repressione sanguinaria in Iran, sia finita prima detenuta nel carcere di Castrovillari e poi in quello di Reggio Calabria.
Circondata dalla polizia penitenziaria, Majidi sembra scomparire. Negli oltre dieci mesi di carcere vissuti finora ha intrapreso alcuni periodi di sciopero della fame, e ora pesa 38 chili. Fa fatica ad ascoltare quello che viene detto in udienza senza poter intervenire. «Non sono una scafista», dice all’avvocato durante una delle pause.
E annuisce di fronte al racconto dei testimoni della difesa, che spiegano le condizioni che vivevano le persone rimaste sottocoperta durante il viaggio. Tra queste c’era anche Majidi, raccontano i testimoni, che è stata sottocoperta per tutta la traversata fino a che «il giorno prima di arrivare, come tutti gli altri, siamo saliti a prendere una boccata d’aria», dice il fratello Rajan Majidi, sentito in videoconferenza dalla Germania.
La coppia che ha testimoniato in udienza, anche loro in collegamento, e passeggeri con la figlia della stessa imbarcazione, ha raccontato di «aver viaggiato con Maysoon sottocoperta per quattro giorni». «Dal quarto giorno la ragazza stava veramente male», racconta il testimone, «aveva la nausea» e per questo «le hanno dato il permesso di salire». «Maysoon stava sempre male», conferma la testimone, «e stava in un angolo come una bambina».
Al contrario, l’accusa sostiene che sia stata parte dell’equipaggio e che abbia aiutato il capitano con la distribuzione di cibo e di acqua. Ma «non ho mai visto nessuno distribuire il cibo», dice il testimone, «noi avevamo portato qualcosa da mangiare e c’era dell’acqua. Solo negli ultimi giorni abbiamo trovato del formaggio e delle olive». E lo conferma anche l’uomo imputato per aver guidato l’imbarcazione: «Maysoon non mi ha aiutato in nessun modo».
Sopravvivenza
«Pensavamo solo a sopravvivere», dice il testimone, quando vengono chiesti dettagli sull’arrivo nelle acque italiane. «In mare c’è una situazione talmente tragica che non mi ricordavo nemmeno il mio nome quando siamo arrivati», continua. Il testimone si definisce «un rifugiato politico», fuggito dall’Iran con la moglie e la figlia, attraversando le montagne a piedi. Sono stati in Turchia per oltre tre mesi, in attesa di poter partire verso l’Italia pagando 35mila dollari per tre adulti e una bambina, racconta la testimone.
Mentre l’accusa sostiene che Majidi fosse in possesso di un telefono, i testimoni raccontano come fossero stati costretti spegnere i cellulari e a consegnarli: «Ci sono stati restituiti quando eravamo vicini all’Italia», dice la donna. Un elemento che emerge anche nel racconto di Rajan Majidi, il fratello, e dell’uomo imputato e accusato di aver guidato la barca: «Solo in tre persone avevano un telefono», dice in udienza, e tra queste non c’è la ragazza.
Quello che emerge dal racconto di tutti i testimoni è che, dopo qualche giorno di viaggio, lo scafo ha iniziato a imbarcare acqua e, spiega Rajan Majidi, «stavamo tutti collaborando per svuotarla».
Dissidenti politici
«Siamo dissidenti politici». È la risposta netta di Rajan Majidi sul perché hanno deciso di fuggire dall’Iran. Durante alcune manifestazioni in Iran, Maysoon è stata arrestata, spiega il fratello, ed è stata in carcere qualche settimana, dove «è stata torturata e lo dimostra un segno che le è rimasto sul gomito». La definisce un’attivista dei diritti umani e in Iran faceva di nascosto la regista: «Organizzava spettacoli per le strade e a teatro», aggiunge.
Il 25enne ha raggiunto la sorella in un secondo momento nel Kurdistan iracheno, dove faceva la giornalista e lavorava per il partito curdo Komala, lo stesso che poi avrebbe aiutato i fratelli a raccogliere una somma per il viaggio. Ma «basta seguire le notizie per capire che in Iraq in quel periodo c’erano tantissimi problemi», precisa, «molti nostri amici hanno perso la vita e non ci sentivamo più al sicuro».
I due hanno quindi fatto richiesta di protezione internazionale all’ufficio di un’agenzia dell’Onu a Sulaymaniyya, sempre nella regione del Kurdistan iracheno, e hanno poi deciso di scappare in Turchia, attraversando a piedi le montagne. Qui sono rimasti per cinque o sei mesi con l’intenzione di partire per l’Europa. Ma la destinazione non era l’Italia, era la Germania.
A un certo punto però, sono stati truffati, hanno perso tutti i soldi che avevano raccolto per il viaggio e hanno chiesto aiuto alla famiglia: «Mi ricordo che abbiamo pagato 17mila dollari per due persone, poi c’è stata una seconda transazione perché ci hanno rubato i soldi». Dopo la traversata, le strade però si sono divise, Rajan è riuscito a raggiungere la Germania, mentre Maysoon è finita in un altro carcere.
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