- Ho due figli in età scolare, e ormai le abbiamo provate tutte: ogni ordine e grado, dal nido comunale al liceo statale, ogni orario, fornitore, menù e modalità di fruizione. Una sola cosa resta costante: il cibo della scuola, a quanto raccontano i figli, fa schifo.
- Ed ecco allora che scattano i sensi di colpa, tanto più involuti quanto più contraddittori: sono stato io che non li ho abituati a mangiare tutto, o viceversa sono stato io ad abituarli troppo bene con le mie fisse per il genuino, il biologico, la roba di qualità, le ricette raffinate?
- Mio rammarico personale: non essere mai riuscito, finora, a entrare in una “commissione mensa”, quelle in cui i genitori dovrebbero controllare la qualità e la salubrità del cibo servito a scuola.
Com’è andata oggi? (Bene). Cosa avete fatto? (Niente). Che hai mangiato? Di tutte le domande inutili che si fanno ai figli quando tornano da scuola, questa è di solito la terza in ordine cronologico, ma la prima per importanza. E pericolosità.
L’ho imparato per esperienza personale, in tredici anni di tempo prolungato, e relative mense. Ho due figli in età scolare, e ormai le abbiamo provate tutte: ogni ordine e grado, dal nido comunale al liceo statale, ogni orario, fornitore, menù e modalità di fruizione. Una sola cosa resta costante: il cibo della scuola, a quanto raccontano i figli, fa schifo. Che poi io la domanda la faccio più che altro per regolarmi su cosa cucinare a cena, al fine di evitare piatti doppione e provare a dare un equilibrio a quello che mangiano almeno nell’arco della giornata.
La risposta, anche questo ormai l’ho imparato, è semplice: non devo fare la pasta, perché se c’è una cosa che non hanno fatto avanzare, è quella. Per quanto riguarda la quantità di cibo che (non) hanno mangiato a pranzo, invece, è facilmente deducibile dalla quantità di cibo che si sbafano a merenda: che va dall’abbondante al pantagruelico.
Sensi di colpa
Ed ecco allora che scattano i sensi di colpa, tanto più involuti quanto più contraddittori: sono stato io che non li ho abituati a mangiare tutto, o viceversa sono stato io ad abituarli troppo bene con le mie fisse per il genuino, il biologico, la roba di qualità, le ricette raffinate?
Il cibo non è buono
Ma poi penso che qualcosa di oggettivo deve esserci: i miei figli sono tra loro diversissimi in tutto, e l’aspetto gastronomico non fa eccezione. Uno è carnivoro, l’altro ama il pesce; uno zero frutta, l’altro zero verdura; uno è goloso e un po’ dipendente dal junk food, l’altro ha gusti ricercati che spaziano dall’esotico al gourmet. Su una sola cosa si trovano d’accordo: sì, avete indovinato.
Il cibo della mensa non è buono. Unica eccezione, la scuola materna: ma grazie al cavolo, aveva la mensa interna. Sempre per cento persone cucinavano, ma è un’inezia rispetto alle migliaia di pasti prodotti dai servizi esterni. Alle mie proteste – siete esagerati, siete viziati – la figlia grande risponde a volte: «Ma papà, guarda che le mie amiche schizzinose mangiano ancora meno di me». E come si fa, ribatto io, meno di poco c’è solo il niente. Esatto.
La commissione mensa
Mio rammarico personale: non essere mai riuscito, finora, a entrare in una “commissione mensa”, quelle in cui i genitori dovrebbero controllare la qualità e la salubrità del cibo servito a scuola. Ma io e mia moglie abbiamo fatto di peggio: per almeno un paio di anni abbiamo preparato a casa il pranzo da mangiare a scuola.
Era successo infatti che un gruppo di agguerriti genitori di Torino aveva portato avanti, e vinto, una battaglia per rendere non obbligatorio il cibo della mensa: si poteva scegliere tra quella e il “panino da casa”. La questione è poi arrivata nientepopodimeno che davanti alla Corte di Cassazione, che nel 2019 ha ribaltato la decisione precedente.
Ci trovammo così incastrati, tra le preghiere della bambina e l’andazzo generale della classe, in una situazione che ci piaceva poco in teoria – per la chiara ideologia individualistica alla base – ed era un grande sbattimento in pratica: dovevamo ricordarci di cucinare una razione in più la sera per farla avanzare, o prepararla ex novo la mattina all’alba, per poi comunque farla arrivare tiepida e disfatta all’ora di pranzo. Non dico che sono arrivato a giustificare le mense, ma quasi.
In ogni caso, da poco ho notato che qualcosa è cambiato nella risposta del figlio piccolo: non tutto è perduto, evidentemente, non tutto è per sempre. Ora quando gli faccio la fatidica domanda, mi sciorina un elenco lungo e dettagliato, dai primi più improbabili, come la minestra di farro e legumi alle verdure al vapore, passando per i famigerati filetti di pesce impanati. Ma come, mi meraviglio io, ma queste cose non le mangi neanche a casa, allora hanno imparato a cucinare finalmente. «No papà», fa lui, «io ti ho detto quello che mi hanno dato, mica quello che ho preso».
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