Dovrebbe scendere in campo con un borsalino e il bandoneón, per il resto è sempre piegato su un lato: pronto a una milonga col pallone, la testa in diagonale, le braccia predisposte a dispiegarsi, portandosi dentro la prefigurazione della perdita.

È un calciatore antico, con una faccia d’altra Argentina, i piedi postmoderni e la fame sulle spalle. In pratica, il corpo di Ángel Di María, è un inganno del tempo: prima il passato, poi il futuro e dopo di nuovo il passato. Una finta del tempo. Silenzioso e assoluto.

Tanto che ora che lascia la nazionale argentina dopo aver rivinto la Copa Américauna más – il ct, Lionel Scaloni, parla di «leggenda» che va oltre il tempo, capace di andare a pressare con generosità, correndo come un ragazzo di venticinque anni, invece ne ha trentasei, ed è stanco di troppe vittorie. E Scaloni l’ha tolto solo dopo il gol di Lautaro Martínez, a quattro minuti dai rigori di una finale che non è stata un pic-nic.

Cominciata con oltre un’ora di ritardo per via di scontri e varchi forzati – i tifosi colombiani hanno cercato di entrare anche dalle condutture di areazione dell'Hard Rock Stadium di Miami, niente che non avesse già denunciato Marcelo Bielsa dopo la partita precedente della Colombia – con svenimenti, cariche, apprensione e panico, e poi l’infortunio alla caviglia di Lionel Messi – c’ha anche appoggiato delle lacrime da Rossella O’Hara – e che ha avuto bisogno dei supplementari e dei cambi di Scaloni per emettere il verdetto.

Il segreto della squadra

In mezzo il solito Ángel Di María, il segreto della squadra che lo schiera. Ogni sua giocata è un enigma romantico. Sarà per il tango, ma ha un rapporto di coppia col pallone: quando è costretto a lasciarlo andare si dispiace, partorendo una vertigine perversa, da creatore: che regala alla palla una nuova vita. Scrivendo un racconto per ogni corridoio aperto per Messi e compagni.

Non è un caso che spesso i suoi ultimi passaggi siano rabone: l’incrocio delle gambe per un passo al contrario, contronatura, mostrando una flessibilità da uomo di gomma.

In campo è un incrocio tra un torero e un ballerino, se non fosse anche alto sarebbe un fantino perfetto. Sottile, leggero, una lampada che trasportata da un campo all’altro dovrebbe avere la dicitura che sta sui pacchi delicati: Altofragile, si muove sinuoso, evita tutti, sta in disparte, anche quando gioca al centro dietro le punte, ma perlopiù sta a destra, a volte anche a sinistra come l’ha voluto Scaloni, tanto non si formalizza: dove lo mettono sta.

L’uomo non visto

Esterno, ala, regista, punta, mezzapunta, Di María è l’eleganza in un tempo di volgarità: l’uomo non visto, quello nell’ombra, che deve venire dopo il campione e poi, a riguardare le partite, è quello che l’ha mandato in gol il campione.

Il miglior attore non protagonista: che si mangia i protagonisti, perché è così bravo da cucire il suo talento sul protagonista – presunto – e scucire dalla vista di chi guarda il suo protagonismo. Ha vinto tutto: dalla Champions League – non una qualunque ma la Décima del Real Madrid – al mondiale, ha vinto il campionato portoghese (Benfica), quello spagnolo (Real Madrid), ripetutamente quello francese (Psg) e un mucchio di altri tituli, sempre con semplicità, stando in disparte, una aristocratica distanza.

A volte così distante da estraniarsi e farsi dimenticare. Un mistico, in ogni suo gesto c’è la sublimazione dello spirito calcistico rosarino, una diversità argentina, lo specifico calcistico che passa per l’estro da César Luis Menotti a Lionel Messi.

Ma c’è anche l’eversione di Ernesto Che Guevara e i tagli con attraversamento di spazi di Lucio Fontana. Quando ha il pallone è lampante la gratificazione materiale del possesso e mentre tutti gli altri vogliono liberarsene o sono stati educati a liberarsene dopo due tocchi, Di María lo tiene, se potesse lo stringerebbe al petto, esplicitando il suo lessico famigliare: il pallone gli appartiene, è una protesi dei suoi piedi che sono attaccati al cuore. Passi e respiri. Finte e strappi. Fughe y estraneità.

Essere distanza

Si potrebbe leggere la sua solitudine, rispetto alle squadre dove gioca, come risentimento per la condivisione forzata, ma questo sarebbe un racconto di un altro rosarino: Roberto Fontanarrosa, che come Di María era un prodotto del Rosario Central. Una Canallas.

In ogni rosarino vive la leggerezza del megalomane che cerca di bruciare sé stesso, resistendo al rogo, e in questa schizofrenia: c’è la bellezza, l’imprendibilità che diventa distruzione degli altri. Nel produrre distanza, essere distanza, Di María produce misura e costringe gli altri a misurarsi. Sia la distanza che la misura sono volontà di sfida, in questo sta il calcio dimaríano.

Un torero che sfida da qualunque posizione l’intera squadra avversaria. Cambiando lo sport, pur conservandone al massimo il concetto principale: passare il pallone al momento giusto. Questa che potremmo chiamare giusta misura o distanza compiuta: tra sé e il gioco, tra sé e la squadra, tra sé e gli avversari, viene resa ancora più unica con gli estetismi: Di María non si disfa mai del pallone come un qualunque altro calciatore, no, deve sempre cercare il modo più alto, come se fosse il suo ultimo gesto, la sua uscita di scena. È come se pretendesse la luce sullo strappo. È la luce che manifesta la singolarità della giocata, è nella luce che si può misurare la distanza, ed è attraverso la luce che si sposta su chi riceve il pallone che Ángel Di María può tornare nell’ombra. Per questo esce di scena lasciando la luce sugli altri, con la Copa América a coprirne l’assenza.

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