C’è una parte della migrazione attraverso il Mediterraneo che non è visibile: i cosiddetti “naufragi fantasma” di cui non si sa nulla e «non si registra quasi alcun dato ufficiale». È quanto emerge dal rapporto relativo al 2022 e 2023 dell’associazione Mem.Med, Memoria Mediterranea, una rete di supporto per le famiglie che hanno perso i propri cari nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare.

I naufragi fantasma dimostrano come la maggior parte delle persone che non riescono ad arrivare in Europa «è vittima di tragedie che neanche si conoscono» e per cui non è stata attivata nessuna procedura di ricerca effettiva. E quindi la storia di Anas Zouabi, il bambino partito dalla Tunisia con il padre e morto annegato a sei anni, raccontata da Domani, è una delle poche a essere stata ricostruita dalle autorità italiane. Molte altre persone rimangono senza nome o senza un corpo da poter seppellire. 

Sono 53.659 le persone migranti scomparse, disperse o decedute, lungo le rotte migratorie mondiali, in base ai dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Quasi la metà coinvolge chi attraversa il Mediterraneo, circa 26mila: di queste, 3.273 sono scomparse nel Mediterraneo occidentale, 2.266 nel Mediterraneo orientale e 20.430 nel Mediterraneo centrale, la rotta «più letale al mondo a causa delle politiche migratorie di confinamento che hanno legittimato respingimenti e violenze, e che hanno normalizzato la morte in frontiera di migliaia di persone», denuncia il rapporto.

Tra le persone che non sono mai state ritrovate, Hamdi Besbes. È stato risucchiato dalle acque di Lampedusa nel luglio 2020. Viaggiava su un peschereccio tunisino con altri pescatori, ma non è mai arrivato sulle coste dell’isola, al contrario dei membri dell’equipaggio dell’imbarcazione che sono stati arrestati. «Era un meccanico ed esperto nuotatore. Amava il mare e la sua passione erano le immersioni subacquee di cui era diventato esperto dopo molti corsi nelle acque di Monastir», racconta Mem.Med.

Quello di Besbes è un caso ancora aperto: nonostante i genitori siano venuti in Italia più volte, le indagini non hanno portato a scoprire elementi ulteriori. L’ostacolo principale, sottolinea Mem.Med., è stata la totale mancanza di collaborazione della Procura tunisina con quella italiana, oltre a tentativi di insabbiamento sul lato tunisino. 

Così, Mariam Diomande, originaria della Costa D’Avorio, è scomparsa insieme ai due figli, di 3 e 10 anni, a novembre 2022. Partita da Sfax, in Tunisia, si è imbarcata per l’Italia con altre persone di origine subsahariana. Non era la prima volta che tentava di attraversare il Mediterraneo, ma era stata riportata indietro dalla Guardia costiera tunisina.

Le ultime tracce risalgono a poche ore prima della partenza, quando si è messa in contatto con la famiglia per poi prepararsi alla traversata. Non è ancora stato possibile, si legge nel rapporto, trovare una corrispondenza con i corpi di donne arrivati a Lampedusa nei giorni successivi al viaggio. Né lei né i suoi figli sono ancora stati ritrovati.

Diomande e Besbes sono due delle decine di storie ricostruite nel rapporto dell’organizzazione, che mette in luce le «gravi inadempienze a livello nazionale e internazionale per ciò che concerne il diritto alla verità e alla ricerca delle persone scomparse». 

La ricerca e l’identificazione

Alle richieste di aiuto, alle segnalazioni di scomparse e denunce delle famiglie spesso non viene dato seguito con effettive operazioni di ricerca. Chi ha contattato l’associazione – si legge nel rapporto – ha dichiarato di non sapere a chi rivolgersi, oppure di non aver ottenuto nessun tipo di aiuto dalle autorità nazionali e internazionali.

E infatti la maggior parte dei corpi delle persone migranti morte in questi anni «non è mai stata recuperata né identificata», denuncia Mem.Med. Salme che spesso, se sono estratte dal mare, vengono sepolte in tombe anonime, rimangono senza nome e per questo sono contraddistinte da numeri. Una pratica che viola principi internazionali, rileva l’associazione, che impongono accertamenti investigativi. Le autorità infatti sono tenute a chiarire le cause della morte, così come a redigere verbali con informazioni che ricostruiscano i fatti. Altre volte però lo stato di decomposizione dei corpi avanzato impedisce di svolgere i rilievi utili all’identificazione. 

Se il diritto internazionale umanitario prevede il trattamento dignitoso dei corpi, la ricerca e il recupero delle vittime, la restituzione dei resti alle famiglie e la sepoltura dei cadaveri, le norme rimangono spesso inapplicate e «le autorità nazionali sembrano impreparate a gestire la portata di queste tragedie», scrive l’organizzazione. Manca inoltre cooperazione tra le autorità per rispondere alle richieste delle famiglie, che rimangono senza un sistema di intervento.

Le famiglie

Sono loro, le famiglie delle persone disperse, le prime vittime, costrette a subire la violenza delle politiche migratorie: non solo affrontano la perdita dei loro cari, ma si vedono negare il diritto di sapere che fine hanno fatto figli, figlie, fratelli, sorelle, nipoti. Non solo, non vengono rappresentati né ascoltati nel dibattito sulla gestione delle scomparse e delle morti, evidenzia il rapporto, e la distanza in termini geografici e linguistici rende complesse le procedure. 

Si vedono poi negare il diritto alla sofferenza psicosociale: «Un decesso – sottolinea Mem.Med. – può essere affrontato più facilmente attraverso l’elaborazione del lutto», ma quando «si tratta di persone disperse esiste un’ambiguità nel lutto che non permette il superamento della perdita». 

È il diritto internazionale a riconoscere le ricadute sul piano psico-fisico. Influiscono l’assenza di un sostegno da parte delle autorità e la difficoltà di accedere alla giustizia sul diritto alla salute e all’integrità psico-fisica dei familiari.

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