La notte del 14 aprile davanti alle coste di Lamezia un pescatore trova il cadavere di un bambino. I detective risalgono a una strage mai censita. Ora il bimbo ha un nome grazie al Dna della madre
Del piccolo Anas Zouabi è rimasto poco: solo le esili gambe attaccate al bacino. Nulla più. Per due mesi ha galleggiato senza vita nello specchio di mare Tirreno incastonato tra Sardegna, Sicilia e Calabria. Vittima per molto tempo senza nome di uno dei tanti naufragi fantasma. Ora un nome ce l’ha. Anas, appunto. Morto annegato a sei anni, durante una traversata impossibile che dalla Tunisia avrebbe dovuto condurlo fino alle coste sarde.
Poco battuta dai trafficanti, ha il vantaggio di essere fuori dai radar mediatici e politici. Tuttavia è tra le più pericolose. Anas era partito su un gommone da Biserta, la città in cui viveva con la famiglia, sulla costa ovest a 70 chilometri da Tunisi. La madre è rimasta in Tunisia, il padre invece era con lui su quella barca naufragata nella notte tra il 5 e 6 febbraio scorso, un anno dopo la strage di Cutro, dopo quei «mai più» pronunciati e promessi, traditi dall’inasprimento delle politiche repressive del governo sugli sbarchi.
Una foto, scattata probabilmente prima di imbarcarsi, li ritrae assieme sorridenti, il piccolo indossa una maglietta di Batman, il supereroe che amava di più. Assieme alcune ore dopo sono stati inghiottiti assieme ad altre 16 persone dalle acque scure e fredde del Tirreno d’inverno. Scomparsi, come se non fossero mai esistiti.
Questa strage poteva finire come moltissime altre. Cadaveri senza nome, masticati e sputati in superficie dal Mediterraneo. Nessuno, insomma, avrebbe mai saputo più nulla del bambino di sei anni di nome Anas. Di vittime senza identità, cadaveri anonimi seppelliti e classificati con un numero, è piena la storia dei troppi naufragi del nostro mare.
Con Anas il canovaccio ha cambiato registro la notte del 14 aprile scorso. Cioè nel momento in cui quel che restava del piccolo corpo è stato ritrovato davanti alle coste calabresi, all’altezza di Lamezia Terme, provincia di Catanzaro. Stava lì, sospeso a filo d’acqua, davanti all’area dell’ex industria chimica Sir di Lamezia Terme, un mostro velenoso con cui avevano illuso i calabresi sul futuro industriale della regione. Anche il padre di Anas si era illuso di potercela fare.
Credeva che, alla fine, il viaggio avrebbe avuto un lieto fine, e Anas le opportunità che meritava. Come le meritava Aylan Kurdi, tre anni. L’immagine del suo corpo senza vita restituito dal mare sulla spiaggia turca di Bodrum ha suscitato un’indignazione istantanea durata qualche istante. Il progetto della fortezza Europa non si ferma davanti a niente.
A trovare il corpo di Anas, tranciato dalla decomposizione, dall’ingordigia dei pesci e forse anche da qualche motore delle navi, è stato un pescatore della zona, ancora molto scosso a mesi di distanza dalla scoperta. La prima comunicazione ufficiale sul ritrovamento è partita dalla capitaneria di porto, inviata ai carabinieri locali. Il destino di Anas poteva terminare in un verbale senza dati anagrafici, archiviato chissà con quale arida formula burocratica.
Eppure quando il caso è arrivato sulla scrivania del procuratore capo di Lamezia Terme questa storia, destinata all’archivio dei senza nome, muta. Il procuratore Salvatore Curcio, magistrato esperto in indagini antimafia, ha affidato il compito alla polizia del commissariato di Lamezia Terme, diretto da Antonio Turi. Inizia così un’indagine mirata sia a restituire un’identità sia a ritrovare la sua famiglia così da dargli una sepoltura. Perché fin da subito fu chiaro che quei resti potevano appartenere solo a un bambino: il piede era un piedino, misurava 15 centimetri.
«Abbiamo insistito perché era giusto farlo», dice a Domani il procuratore Curcio, «ci siamo coordinati con la procura di Messina, il commissariato di Lamezia ha fatto un ottimo lavoro assieme alla capitaneria di porto di Milazzo». Il procuratore, quindi, ha chiesto l’esecuzione del test del dna. Il passaggio successivo è stato diramare un comunicato stampa con la speranza di ricevere informazioni utili a ricostruire i legami familiari del bambino. Il tentativo è andato a segno: i poliziotti di Lamezia ricevono una telefonata di una signora italiana residente a Roma, a sua volta contattata da una donna tunisina dell’associazione Mem.Med, Memoria Mediterranea. Una rete di supporto per le famiglie che hanno perso i propri cari nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare.
Anche grazie al lavoro quotidiano di Mem.Med, i detective hanno iniziato a raccogliere altre informazioni utili a trarre una prima conclusione: il corpo spezzato è da ricondurre al naufragio avvenuto tra il 5 e 6 febbraio. «Individuare l’evento è stato molto difficile, perché non era censito», spiega Curcio, «sapevamo che su quella barca c’erano 17 uomini e 1 bambino, ed eravamo certi che la parte di corpo ritrovata appartenesse a un minore di età di circa 6 anni, avevamo questa certezza per via del piedino che misurava 15 centimetri».
Un riscontro dietro l’altro, verifica dopo verifica, fanno anche un’altra scoperta: i parenti delle vittime di quel naufragio dei primi di febbraio avevano già fornito al consolato tunisino a Napoli i propri campioni di dna nella speranza che prima o poi qualcuno li chiamasse.
Nel gruppo di uomini e donne alla ricerca dei loro parenti, c’era una donna che diceva di aver perso il figlio di sei anni partito con il marito neanche quarantenne. Restava da fare solo una cosa: chiedere di compararli con quello estratto dai resti del bambino senza nome. La comparazione dà esito positivo. Il bambino ha finalmente un nome: Anas, figlio di Nawel, 27 anni, e di Souhail, 38.
«I resti sono ora all’istituto di medicina legale di Catanzaro, appena arriverà il via libera firmerò il nulla osta per ridarli alla madre», dice il procuratore, che conclude con una riflessione: «Queste sono tragedie vicine alle nostre comunità. Durante un incontro con un gruppo di ragazzi in un oratorio ho fatto l’esempio di Anas, spiegandogli che è una storia che ci riguarda, non dimentichiamoci che questa terra è figlia della Magna Grecia, dove la Xenìa era un principio cardine, cioè il dovere di accogliere». C’è chi pensa anche a una raccolta fondi per sostenere la madre di Anas.
Intanto sull’altra sponda del Mediterraneo c’è Nawel. Rimasta sola a Biserta. Non c’è giorno che non maledice quel mare e l’Europa dei muri. Ora aspetta soltanto di poter riavere il bacino e le gambe di suo figlio, per poterlo seppellire. E, infine, una tomba sulla quale piangere.
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