- Il 12 marzo del 1962, esattamente sessanta anni fa, in corte di Assise a Messina si apriva una vicenda siciliana che ancora oggi ha molti punti oscuri.
- Uomini devoti a Dio e che avevano stretto anche un patto con il diavolo. Quattro frati arrestati per concorso in omicidio, associazione a delinquere, estorsione. Prima assolti, poi condannati. Ignoti complici e mandanti
- Tutto era iniziato la sera del 5 novembre del 1956, con due colpi di lupara sparati all’interno di una cella del convento di Mazzarino.
Entrano in aula trascinando i piedi, legati uno all’altro con le catene ai polsi come i prigionieri più pericolosi. Vengono dal carcere e forse anche dall’inferno. Barbe lunghe e arruffate, capelli scompigliati, unghie che sono artigli. E sguardi allucinati.
I fotografi si fanno largo a spintoni fra la folla, nelle panche di prima fila sono seduti i santoni della scienza penale, gli avvocati Francesco Carnelutti, Giuseppe Bettiol e anche Giovanni Leone, che qualche anno dopo sarà presidente della Repubblica italiana.
Sullo scranno del pubblico ministero c’è un giornale aperto, nove colonne di piombo, un articolo del quotidiano L’Ora firmato da Mauro De Mauro che fa una lunga cronaca sui «monaci banditi».
C’è anche una rivista, la copertina è dedicata ai «Don Abbondio delle estorsioni». Dietro le sbarre, ai ceppi ci sono quattro imputati, quattro religiosi. Fra Agrippino e fra Venanzio, fra Carmelo e fra Vittorio, tutti accusati di concorso in omicidio, associazione a delinquere, violenza privata, simulazione di reato.
La mafia nascosta sotto il saio
Il 12 marzo del 1962, esattamente sessanta anni fa, in Corte di Assise a Messina si apriva una vicenda siciliana che ancora oggi ha molti punti oscuri. Quella dei frati Mazzarino è una storia senza innocenti.
Il luogo è un paese sulla cima di una collina che scivola in una valle di ulivi, più vicino al mare di Gela che al capoluogo Caltanissetta, un castello con torri merlate che lo sovrasta, l’Etna all’orizzonte e un monastero che fa paura.
Delitti, lettere anonime, taglieggiamenti, ricatti, vendette e una mafia nascosta sotto il saio castano dei cappuccini che terrorizzava la popolazione. Si sono fatte lunghe indagini, si sono fatti processi su processi, si sono scritti libri e girati film ma la verità su quei frati nessuno l’ha mai conosciuta fino in fondo.
Uomini devoti a Dio che avevano stretto anche un patto con il diavolo. Il caso ha appassionato l’opinione pubblica del tempo, gli inviati speciali dei più grandi quotidiani italiani spediti a seguire il processo, l’attrazione fatale per uno scandalo in convento e gli ambienti di chiesa adirati «per la gazzara ignobile contro i reverenti padri». In più qualche piccante diceria, rimasta ben custodita negli archivi giudiziari, su licenziosi incontri notturni fra religiosi e religiose.
Due fucilate
Tutto ha avuto inizio con due fucilate, due colpi secchi e due fiammate nella cella di fra Agrippino, sulla carta d’identità Pietro Jaluna, trentanove anni, uno dei frati che vivevano nel monastero.
È la sera del 5 novembre del 1956, si apre la porta di una piccola e disadorna stanza del convento di Mazzarino e i pallettoni della lupara sfregiano il muro, proprio nell’angolo dove è raffigurato un eremita in preghiera.
Un urlo rompe il silenzio, nella cella di Agrippino accorrono tutti gli altri fratelli. C’è anche fra Carmelo, il più anziano e il più saggio, ha ottantré anni, il suo vero nome è Luigi Galizia. I frati parlano fra loro e poi decidono di non denunciare l’attentato, meglio non fare sapere nulla all'esterno.
Fra Carmelo propone: «Informiamo l’ortolano, lui può darci aiuto». L'ortolano è Carmelo Lo Bartolo, ogni mattina entra in convento per curare un piccolo appezzamento di terra, pomodori, melanzane, cicoria, alberi da frutta.
È uno «inteso», la voce del paese garantisce che è un amico degli amici. E così i monaci, dopo le fucilate, stanno zitti. Non si sa come ma il maresciallo Calogero De Stefano, comandante della stazione dei carabinieri di Mazzarino, tre giorni dopo viene a sapere degli spari e convoca i religiosi in caserma.
Ciascuno di loro offre una versione diversa sul movente di quei colpi di fucile. Fra Agrippino accusa fra Felice, un confratello allontanato un paio di anni prima da Mazzarino. Qualcuno accenna a un’antica lite scatenata da fra Tommaso, qualcun altro insinua che siano stati i comunisti del paese.
Nessuno parla dell’ortolano. Il maresciallo De Stefano indaga inutilmente per settimane, poi invia un rapporto alla procura di Caltanissetta. Non ci sono indizi, non ci sono sospetti: l’“incidente” è chiuso. Passano i mesi e tutti dimenticano gli spari in convento. Fino all’aprile dell'anno dopo, il 1957.
L’estorsione con lo sconto
C’è una cerimonia al monastero, ospite d’onore padre Costantino, che è stato a lungo a Mazzarino prima della nomina a “provinciale” a Caltagirone. Verso sera si avvicinano a lui fra Agrippino e fra Vittorio, all’anagrafe Ugo Bonvissuto, quarantuno anni. Poi arriva anche fra Venanzio, che in realtà si chiama Liborio Marotta e di anni ne ha quarantasei.
I tre gli dicono: «Padre Costantino sei in pericolo di vita, c’è chi ti vuole morto». Padre Costantino quasi sviene. Lo rassicurano: «Possiamo però risolvere la situazione, basta pagare». Quanto?, chiede il provinciale. «Seicentomila lire per avere salva la vita e settantamila per l’attentato di novembre, perché quelle due fucilate erano per te e non per me», gli risponde fra Agrippino.
Padre Costantino si fruga nelle tasche e tira fuori cinquantamila lire: «Ho solo queste». Fra Agrippino fa una smorfia: «Queste ti bastano sì e no solo per l’attentato di novembre». Gli promette comunque che s’informerà, che «proverà a vedere se posso far qualcosa per uno sconto».
La farmacia in fiamme
Fra Agrippino qualche giorno dopo raggiunge padre Costantino a Caltagirone e gli comunica, brutalmente, che «quelli» non sono disposti a cedere. Vogliono seicentomila lire, altrimenti finirà male, cominceranno a uccidere. E, per prime, le sue sorelle.
Padre Costantino è terrorizzato e decide di confessarsi con padre Sebastiano, a Siracusa, lontano da Mazzarino. Nel segreto del sacramento racconta la tragedia. Padre Sebastiano gli dà quattrocentomila lire e fa solo una raccomandazione: silenzio.
Da quel momento in poi iniziano ad arrivare lettere anonime. Prima a padre Costantino: «Vogliamo altre trecentomila lire». E poi anche a padre Sebastiano: «Devi darci due milioni».
Fra Agrippino e fra Venanzio vengono messi al corrente delle pretese degli estorsori e un’altra volta si propongono come mediatori con i briganti. Tutti sono d’accordo su un punto: bisogna pagare, ma pagare meno. E, naturalmente, non far sapere nulla ai carabinieri.
Da lì a poco, però, minacce e taglieggiamenti scavalcheranno le mura del convento.
«Carissimo don Ernesto..». L’anonimo viene recapitato al farmacista Ernesto Colajanni, un’autorità a Mazzarino. Vogliono da lui un milione, lo avvertono che se non pagherà «si può giocare la pelle o la testa del picciriddu», il figlio.
Nella lettera c’è anche scritto a chi dovrà consegnare la somma, che poi provvederà a farla avere a chi di dovere. È fra Agrippino. Anche Colajanni è sopraffatto dalla paura ma non paga. E, una notte, la sua farmacia prende fuoco. Il maresciallo De Stefano lo interroga e il farmacista nega di avere mai ricevuto richieste di estorsione: «Sicuramente avranno sbagliato bersaglio». Sua sorella, Elena, donna religiosissima, qualche giorno dopo viene contattata da fra Agrippino che le dice: «Mi hanno fatto sapere che tuo nipotino si può salvare solo se uscite tre milioni».
La famiglia Colajanni ormai è rassegnata, il farmacista e la sorella vanno in convento e chiedono del monaco più anziano, fra Carmelo. Anche lui consiglia di pagare. I Colajanni portano ai frati un milione di lire, poi un altro mezzo milione. A incassare il denaro sono sempre fra Agrippino e fra Venanzio, ufficialmente i mediatori della trattativa tra la famiglia e i ricattatori.
Passano altri sei mesi e c’è un secondo incendio. Questa volta bruciano il portone della casa del cavaliere Angelo Cannada, ricco proprietario terriero. Anche a lui arriva una lettera: «Si informa la Signoria Vostra di volere dare questo piccolissimo contributo offrendo la somma di dieci milioni. Se questa somma non intendete darla, è nostra intenzione prenderci vostra moglie e il vostro bambino».
Il messaggio si chiude con l’indicazione della persona alla quale si sarebbero dovuti rivolgere per il pagamento: il monaco anziano del convento, fra Carmelo. Il cavaliere Cannada non vuole pagare. E va a trovare fra Carmelo in convento. Il copione è sempre lo stesso: gli dice di sborsare il denaro e di non farne parola con nessuno. Il cavaliere Cannada è disposto a scucire duecentocinquanta mila lire «per beneficenza», fra Carmelo insiste per i dieci milioni e lo avverte delle conseguenze: «Terribili».
Il possidente decide allora di rivolgersi al procuratore della Repubblica di Caltanissetta Mario Lamia, suo amico personale. Il paese è piccolo, la notizia si diffonde in un lampo.
L’omicidio del proprietario terriero
È la mattina del 25 maggio del 1958, le campagne di Mazzarino sono verdissime, tagliate da una strada polverosa che sale verso le alture coltivate a viti. Da un cespuglio escono quattro uomini con il volto coperto da un fazzoletto, sono armati. Fermano una Fiat 600, dentro ci sono il cavaliere Angelo Cannada, sua moglie Eleonora Sapio, il figlio Francuzzo e la cameriera Carmelina.
Il cavaliere Cannada viene afferrato da uno dei quattro uomini e fatto inginocchiare sotto un albero, poi parte un colpo di lupara. I pallettoni gli squarciano una natica e gli spezzano il femore. Cannada sviene, perde così tanto sangue che dopo meno di un quarto d’ora dopo è già morto.
Suo figlio Francuzzo è sconvolto, la cameriera Carmelina è paralizzata dalla paura, la moglie Eleonora schiantata dal dolore. Vengono interrogati anche i frati. Non aprono bocca. Ed Eleonora, la vedova del cavaliere Cannada, continua a pagare fra Carmelo.
Perché intanto suo fratello, Angelo Sapio, sindaco di Licata, riceve l’ennesima lettera anonima: «Siamo gentili, ve lo diciamo prima quello che succede dopo. Mandateci quello che sapete se non volete la pace eterna specialmente per il bambino che ha tutta la vita dinnanzi a sé».
Il male nascosto che fa paura
Gli abitanti di Mazzarino sono sempre più in preda al panico. Riceve lettere anonime il barone Alù. A mezza dozzina di allevatori rubano il bestiame, in cambio della restituzione chiedono denaro. Nella lista dei taglieggiati entrano in tanti.
Ma tacciono, tacciono tutti. «All’epoca dei fatti ero solo un ragazzino e già allora era evidente la pochezza dei personaggi coinvolti, tutti, vittime e carnefici. Emergeva in ogni strato sociale una totale mancanza di senso civico», ricorda Enzo Russo, scrittore che è di Mazzarino e che alla Sicilia ha dedicato una quarantina di libri tradotti in più di venti lingue.
E racconta: «È stato il trionfo dell’ignoranza e della paura, ignoranza e paura che producono sempre omertà, in paese si sentivano centinaia di voci ma nessuna pubblica, le vittime si sarebbero potute difendere in tanti modi ma non l’hanno fatto. Perché il male è sempre sopravvalutato, non lo conosciamo, il male è nascosto e così fa più paura».
Un vigile urbano troppo curioso
A tanti ma non a tutti. In paese c’è anche chi vuole sapere la verità. È un vigile urbano, si chiama Giovanni Stuppia, fa domande in giro. Troppe. Una sera, mentre torna a casa, gli sparano. Anche a lui, come al cavaliere Cannada, disintegrano il femore. Ma miracolosamente si salva. E prima di finire sotto i ferri in ospedale fa un nome: «È stato Azzolina».
Nella notte i carabinieri perquisiscono il casolare di un giovane pregiudicato, Filippo Azzolina, e trovano un fucile da caccia caricato a pallettoni. Filippo Azzolina si difende, dice che l’ha nascosto lì suo zio Gerolamo. Lo zio, interrogato all'alba, crolla e ammette di avere sparato al vigile urbano. Coinvolge anche i complici, Giovanni Sallemi e Filippo Nicoletti.
È quest’ultimo che porta dritto i carabinieri al convento. Comincia a parlare delle lettere anonime («Ma non le ho scritte io perché non so leggere né scrivere ») e gli sfugge un nome: fra Agrippino. È stato lui.
Fra Agrippino viene interrogato e tira in ballo l’ortolano Carmelo Lo Bartolo che subito dopo si butta latitante. Trascorre appena qualche settimana alla macchia e viene catturato a Genova, poi lo chiudono nel carcere Malaspina di Caltanissetta. Dopo cento giorni di detenzione lo trovano morto in cella, impiccato a un lenzuolo.
L’ortolano “suicidato”
«Suicidio», sentenzia sbrigativamente il medico legale. «L’hanno suicidato», denuncia sua moglie Teresa. Il procuratore Lamia che intanto continua la sua inchiesta, fa controllare i conti bancari degli indiziati.
L’ortolano ha risparmi per 74.390 lire. E gli altri tre, Gerolamo Azzolina e Giovanni Sallemi e Filippo Nicoletti, tutti insieme non arrivano a racimolare 50mila lire. Fra Agrippino ha invece un libretto al portatore con un deposito di 320mila lire, fra Carmelo un deposito con 400mila e altrettanto ha sua nipote Rosa che lavora come addetta alle pulizie per 12mila lire al mese in una clinica di Palermo.
Nella cella di fra Venanzio trovano una macchina per scrivere Olivetti lettera 22 che, secondo i periti, è quella delle missive anonime. Nella cella di fra Vittorio viene sequestrata una risma di carta identica alla carta utilizzata dai ricattatori. Si scopre anche la messinscena delle due fucilate in convento, quando è cominciato tutto. Sono stati gli stessi frati a simulare l’attentato.
Il 16 febbraio del 1960 il procuratore della Repubblica Mario Lamia firma gli ordini di cattura contro i quattro monaci, a dicembre ne chiede il rinvio a giudizio. Contro i religiosi non prendono provvedimenti né l’ordine dei cappuccini né la curia di Caltanissetta. Aspettano, aspettano la giustizia terrena e la giustizia divina.
Lo “stato di necessità”
Dopo poco più di un anno ecco i quattro frati giudicati dalla Corte di Assise di Messina – processo spostato in quella città per legittima suspicione, legittimo sospetto – che entrano in aula.
Le prove contro di loro sono schiaccianti, i grandi avvocati scesi da Roma e dal nord Italia per difendere i religiosi invocano «lo stato di necessità», in pratica sostengono che i frati sono stati costretti dall’ortolano o da ben altri complici a taglieggiare gli abitanti di Mazzarino. Come è possibile che quattro ingenui religiosi possano avere organizzato un piano così diabolico? Chi si nasconde dietro il loro saio?
La vedova del cavaliere Cannada durante un’udienza denuncia di avere ricevuto altre minacce di morte, il giornalista sacerdote Lorenzo Bedeschi sull’Avvenire assolve i suoi colleghi ancora prima della sentenza. Che viene pronunciata a tempo di record, tre mesi e dieci giorni dopo l’inizio del dibattimento, il 22 giugno 1962.
Assolto fra Vittorio per non avere commesso il fatto, assolti fra Venanzio e fra Agrippino e fra Carmelo per avere agito in stato di necessità proprio come ipotizzavano i principi del foro. Condanna dai 16 ai 30 anni invece per gli altri imputati, i malacarne del paese. È un verdetto clamoroso.
Subito si racconta di un furibondo scontro in camera di consiglio fra il presidente Tommaso Toraldo e l’altro giudice togato, si scatenano le polemiche fra gli avvocati, alcuni di loro si spingono ad affermare che i monaci non solo non sono colpevoli «ma che hanno adempiuto a una missione».
Il processo d’appello inizia un anno dopo, il 21 maggio del 1963. Fra Vittorio non è in aula perché uscito dal processo. Fra Carmelo è così vecchio che non può più muoversi, sul banco degli imputati si presentano fra Agrippino e fra Venanzio. Tutti e due liberi, senza più catene ai polsi.
Il farmacista Ernesto Colajanni, che in primo grado si era costituito parte civile, si ritira in buon ordine. Ma, inaspettatamente, i giudici smontano la sentenza precedente e ribaltano il verdetto: 13 anni di reclusione per fra Agrippino, fra Venanzio e fra Carmelo per associazione a delinquere ed estorsione, gli altri imputati condannati per omicidio.
Una vicenda ancora misteriosa
L’impianto accusatorio è confermato, i monaci restano in libertà in attesa della Cassazione. E un’altra volta tutto è da rifare, perché nel febbraio del 1965 la Suprema corte cancella la sentenza di appello e dispone un nuovo processo. Lontano dalla Sicilia, a Perugia. Si apre nell’estate del 1966, a giugno. Fra Carmelo nel frattempo muore. Restano solo fra Agrippino e fra Venanzio.
Il procuratore generale è Marino Colacci, descrive il convento di Mazzarino «come la centrale operativa del banditismo mafioso del paese» e chiede pene severe per i monaci. Il 30 settembre del 1967 fra Agrippino e fra Venanzio vengono condannati a 8 anni.
Non si scoprono i legami che i frati avevano con i boss, non si scoprono conniventi o mandanti, non si scopre – oltre al movente del denaro – cosa abbia spinto i quattro religiosi a mettere a ferro e fuoco un intero paese. Fra Agrippino torna nel monastero di Mazzarino, dove rimane segregato sino al suo ultimo giorno di vita, nel 1987. Fra Venanzio viene trasferito in una missione in Brasile, dove muore nel 1989. Nel convento dei misteri oggi vivono quattro suore.
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