Negli ultimi due decenni il calcio è cambiato. Il melting pot di giocatori e allenatori per il mondo ha reso il gioco più globale, meno distinguibile da un Paese all’altro. Il parere di Stefano De Angelis, tecnico nella serie A maltese: «È importante confrontarsi, cercando di portare le proprie convinzioni e facendosi contaminare dal contesto»
Il calcio è cambiato, sicuramente negli ultimi due decenni, ma non tutti se ne sono accorti. Il melting pot di calciatori e allenatori in giro per il mondo ha reso il gioco più globale, per certi versi meno distinguibile da un Paese all’altro, lì dove una volta esistevano modelli facilmente individuabili. Oggi tutti sanno giocare la palla, tutti si allenano intensamente, tutti studiano la tattica, adattandola ai giocatori a disposizione, tutti hanno una cultura alimentare sportiva, o quasi, il gap si è ridotto, come sta dimostrando pure Euro 2024.
Se da una parte gli allenatori italiani all’estero sono tantissimi, non solo quelli più noti ma anche nei campionati meno conosciuti e seguiti, così come nei settori giovanili – dall’altra gli allenatori stranieri in Italia sono più spesso osteggiati, addirittura rifiutati; basta citare per tutti l’esperienza di Luis Enrique alla Roma o quello che è accaduto al Milan prima con Rangnick, poi con Lopetegui.
Stefano De Angelis, romano di nascita e calabrese d’adozione, classe ’74, è il nuovo allenatore del Birkirkara FC, squadra della serie A maltese. Ci arriva dopo due stagioni come vice all’Ħamrun Spartans, nelle quali ha messo insieme due titoli consecutivi e una partecipazione ai preliminari di Conference League: «Ho alle spalle una lunga gavetta, la prossima sarà la mia quattordicesima stagione in panchina tra settori giovanili e prime squadre, in Abruzzo, Calabria e Lazio».
A Malta anche il ct della Nazionale da due anni è italiano, Michele Marcolini, un ex tra le altre di Chievo e Atalanta. Quel campionato è un torneo con molti giocatori argentini, brasiliani e africani, lo stile di gioco è anglosassone, tutto il resto è locale: «A volte è accaduto che arrivassero allenatori italiani con in testa l’idea di essere portatori di qualcosa di unico, come se il calcio lo avessero inventato loro, senza ottenere risultati.
È importante, invece, confrontarsi, cercando di portare le proprie convinzioni e facendosi contaminare dal contesto. Da noi questo accade di rado, siamo chiusi credendo di sapere già tutto. Se mi capitasse di tornare in Italia mi piacerebbe far sentire lo speaker dello stadio dentro lo spogliatoio e lasciare ai giocatori la libertà di vivere l’approccio alla partita, ognuno a modo proprio. Gli italiani su questo sono troppo fossilizzati, schematizzati, eppure di Balotelli a Malta non ne ho mai incontrati».
Andare ad allenare all’estero non è solo un’occasione professionale irrinunciabile, come per Maresca al Chelsea, Farioli all’Ajax o De Zerbi a Marsiglia. A volte è una necessità: «Ho allenato e vinto in posti diversi e in categorie diverse, ripartendo sempre da zero, con una gavetta che stava diventando infinita, così com’è successo ad altri colleghi che conosco. In Italia ci sono sempre gli stessi giri e le stesse amicizie, se non ne fai parte è difficile. All’estero, ti sono riconosciute le competenze tecniche e tattiche che hai maturato, ti mettono alla prova».
Ma per accettare la sfida bisogna sapersi adeguare: «Ci si deve calare in un mondo nuovo, non solo calcistico, studiare lo stile del loro gioco, accettare che alcuni calciatori prima della partita mangino a casa loro, adeguarsi a culture diverse dalla nostra. Poi c’è il campo e allo Spartans ho potuto collaborare con un tecnico serbo, mettendo insieme le nostre conoscenze e ottenendo ottimi risultati», dice, lì dove adesso c’è un altro tecnico italiano, il pugliese Alessandro Zinnari.
«I risultati contano anche a Malta», dice De Angelis, «però hai la possibilità di sperimentare e farti apprezzare».
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