Il giovane ucciso dal pestaggio dei carabinieri, il 15 ottobre del 2009 aveva cenato per l’ultima volta con lei prima di essere fermato dall’arma. La madre prese la difficile decisione di mostrare le immagini del figlio morto: «Davanti a quel corpo abbiamo giurato che verità giustizia sarebbero uscite fuori, l'avremmo fatto per lui»
«Non ce l’ha fatta. Questa mattina Rita Calore si è arresa per andare a riabbracciare Stefano. Il figlio mai perduto». Lo ha scritto su Facebook Fabio Anselmo, legale che ha seguito la famiglia Cucchi nei processi per la morte del giovane, ucciso dai carabinieri mentre era sotto la loro custodia.
«Con tanta emozione e mi stringo a Giovanni eIlaria. Non mi viene altro da dire a questa grande famiglia», ha scritto su Facebook l'avvocato.
La ricerca della giustizia
Calore non ha mai smesso di cercare giustizia per il figlio, e quando la corte di Cassazione ha confermato le condanne a 12 anni di reclusione per Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, arrivata il 4 aprile scorso, «Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causando la morte»
La mamma di Stefano, quando la Corte d’Appello ha stabilito la pena nel 2021, ha pianto non appena ha saputo della sentenza: «Un momento di grande commozione – aveva fatto sapere l’avvocato Stefano Moccioni-. Dopo 12 anni la lotta non ancora finita».
Cucchi fu tacciato di essere un drogato, anoressico, sieropositivo. La madre ricordava di averlo avuto a cena a casa l’ultima sera prima che venisse fermato dai carabinieri il 15 ottobre 2009: «Quando vedemmo il suo cadavere all'istituto di Medicina legale, io che lo avevo partorito per una frazione di secondo ho fatto fatica a riconoscere mio figlio - raccontava la madre-. Era dentro una teca di vetro, con una marea di poliziotti intorno, coperto solo da un lenzuolo fino al collo. Solo dopo abbiamo scoperto il resto del corpo, con le fratture dietro la schiena. Era uno scheletro con gli occhi mezzi aperti, la bocca aperta. Quello non era Stefano». Prese la decisione di mostrare a tutti quanto era accaduto, le foto rimaste impresse nella memoria pubblica: «C’era un poliziotto che girava intorno a quella teca scuotendo la testa come a dire “non è possibile”. Davanti a quel corpo abbiamo giurato che verità giustizia sarebbero uscite fuori, l'avremmo fatto per lui». Perché «se noi avessimo raccontato come avevamo visto Stefano nessuno ci avrebbe creduto, e dopo qualche giorno decidemmo di mostrare le foto del cadavere, anche se all'inizio io non ero d'accordo».
© Riproduzione riservata