Il giorno che Rafa Nadal non si ritirò era invece quello perfetto. Stava malmenando l'ottavo miglior giocatore al mondo come fa lo scardasso con la lana, il povero Ruud avrebbe raccapezzato sei game in tutta la partita, in una finale del Roland-Garros finita 6-0 al terzo set. Fu in quel pomeriggio di inizio giugno del 2022 che il mondo del tennis credette per un bel po' di avere sotto gli occhi l'ultima partita del giocatore che la Spagna ha chiamato extraterrestre, immortale, un Dio sceso in terra, un gladiatore, un colosso, un marziano, una leggenda, un mito, un esempio di umiltà e di resistenza, finanche uno psicopatico, un benedetto psicopatico, anzi, ma comunque tale.

Nadal stava vincendo il suo quattordicesimo torneo sulla terra rossa di Parigi, L'Équipe andava preparando una prima pagina con un gioco di parole, Pour l'eterrenité, "Per l'eterrità", quando cominciò a diffondersi l'indiscrezione che Rafa avesse richiesto all'organizzazione lo spazio e il tempo per una seconda conferenza stampa.

Radio Montecarlo diede la notizia che Roger Federer aveva preso un aereo per Parigi, stava arrivando anche lui, e il passaparola mondiale di questo dettaglio convinse tutti, Nadal stava preparando una meravigliosa uscita di scena: vincere, alzare la Coppa, salutarci. Lo aveva fatto Flavia Pennetta a New York, lo avrebbe ripetuto lui dopo un torneo giocato per quindici giorni sotto anestesia locale, con un dolore insopportabile al piede sinistro per la sindrome di Müller-Weiss.

Si era sottoposto a un numero dimenticato di iniezioni a radiofrequenza ai nervi sensoriali, in sostanza quel che si fa prima di un intervento chirurgico.

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L’ultimo Slam

Così aveva potuto giocare senza dolore, ma anche privo di ogni sensazione, come quando sei intorpidito dal dentista, col grosso rischio di non avvertire nulla, non solo il dolore ma neppure il pericolo, aumentando così la stessa possibilità di distorcersi una caviglia o peggio. Era l’unico modo per darsi ancora un'occasione e vincere, vincere, vincere. Vendendo un pezzo di corpo al diavolo. 

Sul match-ball Nadal ripulì la riga con la suola delle scarpe e poi cominciò la sua solita sequenza di gesti tra fronte tempia occhi, picchiò il tallone sulla racchetta per scrollarsi quella sabbia raccolta a quintali nei calzini in tutti questi anni e cavò dal dritto un tiro così s-centrato da indurci a credere che l’avesse fatto apposta, che avesse voluto sbagliare di proposito per restare in attività un punto in più.

Chiuse con un lungolinea di rovescio, come aveva fatto contro il numero uno Djokovic nei quarti di finale e scoppiò a piangere. Afferrò con le dita incerottate quel pezzo d’argento per il quale ci si batte al Roland-Garros, strinse il microfono e disse due volte merci. Ma non disse adieu. Disse «adesso non lo so, non lo so come andrà a finire, ma ci proverò ancora».

Non si ritirava, e nel dirlo mostrò come si possa sbagliare il tempo dell'ultima uscita dopo aver indovinato per milioni di colpi il momento esatto dell'impatto tra una palla e il piatto della tua racchetta.

Gli infortuni e le rinascite

Dentro un corpo dalle molte ferite, aveva ancora desideri in eccedenza. Nell'arco di vent'anni, fra 2003 e 2023, Nadal ha conosciuto strappi addominali e fratture da stress, si è rotto i tendini dei polsi e delle ginocchia, si sono sbriciolate un paio di costole e alla fine un piede. Si è dovuto fermare per diciotto volte.

È stato lontano dai campi per 58 mesi complessivi, significa cinque anni di assenza mentre c’era. Quando è tornato ancora un'ultima volta nel dicembre scorso, un marziano si sarebbe stupito di tanta attenzione per il numero 664 del mondo, solo che si trattava dell'umano con più Slam e più tornei vinti di tutti gli altri 663 tranne uno, anzi era quello che aveva vinto più degli altri 662 messi assieme.

Eppure, Rafa Nadal ha sempre considerato come il suo anno peggiore il 2015, quando il corpo è rimasto intatto, neppure un graffio, ma lo accompagnava in campo un disagio che sentiva tra i pensieri, un anno in cui provò ansia e perdita di fiducia. Ne uscì facendo le cose di sempre, posandosi l’asciugamano sulle gambe prima dell'inizio di una partita, bevendo da due bottiglie differenti e allineandole al cambio di campo in diagonale, scartando una delle tre palle che gli sono state offerte prima di ogni servizio, toccandosi lo slip dentro il pantaloncino, e poi la spalla sinistra, la spalla destra, l’orecchio sinistro, il naso, l’orecchio destro, una routine meccanizzata per scrollarsi le incertezze di dosso, nessuna sindrome, ma un protocollo fissato per non disordinare la coscienza, per non farsi assalire dal caos.

I 14 titoli del Roland-Garros e i 22 complessivi di Slam resteranno per sempre nel libro delle sovrumane imprese, al pari delle 28 medaglie olimpiche di Michael Phelps e degli 11 anelli NBA di Bill Russell. Nadal arrivò nel tennis come un vento selvaggio che spettinava le sciccherie di Federer, un barbaro, nel senso che al termine dà Alessandro Baricco, un mutante che sostituisce un paesaggio a un altro.

Si presentò smanicato e con il pinocchietto per contrapporsi pure nell'immagine allo svizzero ben pettinato e con il cardigan crema a Wimbledon. Venne per recitare il ruolo dell'antagonista e per riproporre il confronto di stili a cui il tennis è da sempre abituato. Sembrava un giocatore da clava contro un altro che usava il piumino per la cipria.

Sono diventati amici, come uno il prolungamento dell’altro, fino a piangere insieme, mano nella mano per l’addio di Roger. 

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Com’è cambiato

In principio guadagnava l’80 per cento dei suoi punti con lo stesso schema: diritto in diagonale, accelerazione sull’altro lato. Ma ingannevole era quel Rafa sopra ogni cosa. Non sarebbe stato un mutante vero se non fosse mutato un po' alla volta lui stesso, aggiungendo ogni anno qualcosa al bagaglio, una traiettoria diabolica mancina, un tocco a rete, fino a conquistarsi l’80 per cento dei punti in modo sempre diverso, una smorzata, un tiro al volo, un rovescio incrociato.

Ha smesso di giocare ogni punto come se fosse il giudizio universale, con una forza misurata in 1.176 newton. Il fisico rabberciato lo ha costretto a riscrivere i colpi e cambiare la maniera di giocare. Per alleviare il carico sul ginocchio infortunato, ha spostato il peso del corpo dalla gamba sinistra girando l’anca e portando la flessione sull’altra gamba.

Ha dovuto cambiare il rovescio a due mani, ruotando i fianchi per alleggerire il carico. Il prodotto è stato un giocatore completo e meraviglioso, uno straordinario esempio di come si possa adoperare un limite per arricchirsi, fino a conquistare tifosi tra i vedovi di Roger, perché era diventato la prosecuzione di Federer con altri mezzi.

Mats Wilander, ex campione svedese oggi opinionista tv, ha detto: «Più invecchia, più mi diverto a vederlo giocare. Trovo che il suo tennis oggi sia più divertente di quello di Roger. Non voglio più commentare le partite di Nadal. Voglio solo vederlo giocare».

Dopo Iniesta

Il viaggio è finito, Nadal è prosciugato, tutte le montagne che poteva smuovere non sono più al loro posto. Lascerà dopo le finali di Coppa Davis a Malaga, tra un mese. L’ha annunciato un paio di giorni dopo Andrés Iniesta, il più grande calciatore dell'ultimo ventennio se non fossero esistiti Messi e Ronaldo.

Un doppio sfregio al sentimento di una generazione di spagnoli. Ma la gioia più grande per chi smette è sapere di aver lasciato un'eredità e nel suo paese ha preso il volto di Carlos Alcaraz. Sarà con Sinner l'idolo di un’età nuova.

Non sta morendo il tennis col ritiro di Nadal dopo quello di Federer, ma è un altro pezzo che si stacca dalla sua Cappella Sistina.

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