- Davanti al centrotavola di pigne sprayate d’oro e al Paperino in ceramica usato come segnaposto mi bastano cinque minuti per averne la conferma: tutto avrei dovuto fare fuorché lasciare che accadesse.
- Eccomi nel rifiuto di un’appartenenza, recido il sacro legame affettivo-carnista, e il senso è quello di un oltraggio, un’onta: se potessero mi aprirebbero la bocca per riempirmela a forza.
- In pubblico e in privato, a Natale, in famiglia o situazioni di lavoro, tra sconosciuti: quasi tutti sentono il bisogno di delegittimare, con le buone o con le cattive, chi dichiara di seguire un’alimentazione diversa per questioni etiche.a
È il 24 dicembre, il primo cenone di Natale con la mia famiglia da quando ho preso la decisione: mi siedo nel posto che è lo stesso da più di trent’anni ma stavolta sono colpevole. Davanti al centrotavola di pigne sprayate d’oro e al Paperino in ceramica usato come segnaposto mi bastano cinque minuti per averne la conferma: tutto avrei dovuto fare fuorché lasciare che accadesse.
Occhi sgranati a cui seguono risate nervose, colpi di tosse, è un crescendo: «Ma almeno i salumi li mangi?», «Come neanche il formaggio?», «Scusa e fammi capire: le proteine dove le prendi?». Quindi il vaticinio: «Finisce che ti viene qualcosa». Domande e domande, mentre le bocche non smettono di portar dentro e triturare, rosicchiare e inghiottire.
Benvenuti nel cuore della tradizione millenaria, carne e famiglia, celebrazione religiosa e sacrifici animali: in attesa della mezzanotte sulla tavolata vengono ammonticchiati via via solo piatti e vassoi dal contenuto che non toccherò. Capitone, insalata di nervetti, focaccia ai ciccioli di maiale. Poi lasagna, gamberoni dagli occhi nerissimi, tacchino col ventre ricolmo di cucciolo di mucca tritato.
Eccomi nel rifiuto di un’appartenenza, recido il sacro legame affettivo-carnista, e il senso è quello di un oltraggio, un’onta: se potessero mi aprirebbero la bocca per riempirmela a forza. Mi immagino legato a croce, mani e piedi, supplizio della ruota, per ricevere cucchiaiate di maionese e uova di lompo dalla schiera inferocita dei miei parenti alla vigilia della nascita di nostro Signore.
Vegano uguale malato
Mia nonna senza smettere di impiattare disorientata sussurra: «Neanche le tartine burro e salmone che ti piacevano tanto?» Provo a disinnescare il trauma, ricomporre le crepe nel cuore: «I gusti cambiano», i suoi occhi al cielo. «Per lui ho portato io delle cose», dice mia madre nel tentativo di placare gli animi, l’unica che ha già avuto modo di metabolizzare la mia decisione.
«Ma che, sei malato?», ribatte mio nonno affettando il salame più grande del mondo. «E quanto deve durare questa dieta?», incalza di nuovo mia nonna, sgomenta. Quando metto in chiaro sarà così per sempre lei si allontana come strappandosi a pizzichi il grembiule di dosso, scompare in cucina e da lì ho la sensazione di sentirla piangere.
Non ho tempo di dispiacermene: mio zio, grandissimo amante dei festival latini, delle grigliate all’aperto e della fiorentina al sangue, solleva la faccia dalla piramide di pesce fritto e con una specie di frenesia mi chiede: «Quindi sei a-n-i-m-a-l-i-s-t-a?». Il tono è lo stesso che avrebbe se avessi annunciato di essere la reincarnazione della pulzella d’Orléans. «Ci siamo evoluti così», aggiunge il vicino dei miei nonni, ex tranviere in pensione, passato a fare gli auguri. «L’essere umano è diventato quello che è grazie alla carne, l’ho letto su Focus», precisa mentre deposita il ventesimo panettone ospitato da questa casa. L’altro mio zio si trattiene, e poi non più. Svuota il calice di Prosecco e chiude il discorso: «Lasciatelo stare, è una cosa comune tra i gay».
La difesa dei carnivori
Sapevo che non avrei dovuto venirci: il luogo comune vuole che i vegani siano dei predicatori fissati e oltranzisti, sempre pronti ad affliggere l’anima al prossimo con ramanzine e macabri video, ma la verità è che nel momento in cui una persona dichiara di non mangiare animali e/o derivati le reazioni scomposte degli astanti non si fanno attendere. In pubblico e in privato, a Natale, in famiglia o situazioni di lavoro, tra sconosciuti: quasi tutti sentono il bisogno di delegittimare, con le buone o con le cattive, chi dichiara di seguire un’alimentazione diversa per questioni etiche.
Di fronte alla scelta vegana gli onnivori si sentono messi in discussione, e rifiutano spesso con violenza quella discussione. Nel vegano che gli si para davanti vedono un’alternativa connessa a domande di giustizia e compassione, domande che non capiscono o, più semplicemente, sono abituati a non considerare. Domande ingombranti, che devono essere eradicate.
Così partono le battute e le provocazioni, al fine di demolire l’esempio destabilizzante ovvero odioso. E ristabilire l’ordine, il regime del “così si è sempre fatto”. Il cibo è l’ambito in cui le persone si dimostrano più terrorizzate dal cambiamento. È anche una questione di immaginario: tutti noi cresciamo sin da piccoli nella rimozione del destino degli animali.
C’è un vuoto tra l’animale non umano vivo e desideroso di vita e l’alimento che arriva nel nostro piatto. Siamo abituati a separare l’essere senziente dalla polpetta/bistecca/fetta di prosciutto, siamo addestrati a non contemplare i passaggi mortiferi. E non è questione di superiorità morale: i vegani semplicemente sono persone che a un certo punto hanno preso atto di cosa c’è in quel vuoto, in quello spazio occultato. E se ne fanno carico. Agiscono nel mondo facendosi portavoce di quegli esseri stipati e brutalizzati, deportati e uccisi.
Migliaia, milioni, miliardi di animali mandati a morire ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Esseri che proprio come noi sentono il piacere e il dolore, ma che comunicano in un modo diverso dal nostro e che quindi possono facilmente essere trattati come materiale inerme, a disposizione. Corpi vivi ridotti a oggetti, cose.
La sottomissione animale
Eppure non c’è possibilità di fraintendere: gli animali vogliono vivere. Scalciano, scappano, si nascondono, o tentano di farlo. Fino all’ultimo, fino al loro turno nei mattatoi. Vogliono vivere e non morire, esattamente come noi, solo che ciò che vogliono loro non conta. L’uomo può sottometterli e lo fa.
Dispone dei mezzi tecnici, lo ha sempre fatto, continua a farlo. La sottomissione animale, oggi industrializzata, è qualcosa di semplice, automatico: riconoscerla, e riconoscerla come sbagliata, comporta una torsione del sentire, dell’immaginazione. In questo senso è difficile trasmetterla, comunicarne il senso, persuadere: proprio come succede sempre con i valori, con l’assiologia, anche quando si parla di esseri umani.
Se una persona non sente che infliggere sofferenze a un’altra persona è male, come posso convincerla? Se un individuo non sente che l’infanzia va protetta e non violata, che il più debole non è giusto che soccomba sotto i colpi del più forte, come posso dimostrarglielo? Dove manca la sensibilità il dialogo è pressoché impossibile. Essere vegani poi non è solo una dieta, non è solo una questione alimentare.
Vivere vegano
I vegani non indossano lana, seta, pelle. Evitano saponi e cosmetici testati. Non frequentano circhi, zoo, acquari. Essere vegani è una conseguenza dell’essere antispecisti, ovvero del rifiuto di considerare la specie umana titolata a spadroneggiare sulle altre. Il veganismo è una reazione generalizzata a un abuso di potere sistemico, per quanto silenziato, nascosto, un abuso di potere ancestrale ma ormai non più necessario, e anzi, come sappiamo o dovremmo sapere, nocivo anche per il destino del pianeta, e quindi per tutti noi.
I vegani fanno, o meglio non fanno, diverse cose, ma è il cibo che attira di più l’attenzione. È per ciò che decidono di non mettere nel loro piatto che balzano all’occhio, danno sui nervi. Mangiare carne oggi – checché se ne pensi – non è più un bisogno, e lo stesso si può dire per uova, latte e formaggi: le alternative, semplici o complesse, sono sempre di più e sempre più entusiasmanti, la ricerca gastronomica – artigianale e industriale – negli ultimi anni ha fatto davvero miracoli.
Molti dei sapori amati dagli onnivori diventando vegani si scopre che sono comunque accessibili: la maggior parte di questi sono infatti il risultato non tanto delle materie prime quanto del processo di lavorazione, di affumicatura, fermentazione, stagionatura, di spezie e insaporitori. E la scelta vegana dischiude anche tutto un mondo di cibi ignorati dal mainstream alimentare. Cibi spesso più sani e nutrienti, coi quali è facile conciliare gusto e salute, innovando e rivisitando anche ricette tradizionali. L’idea del vegano che mangia insalata o sbobbe improbabili è fuori dal nostro tempo.
Disastro ambientale
Per non parlare della sostenibilità: ormai è noto che gli allevamenti intensivi sono una delle principali cause del disastro ambientale in cui ci troviamo, fagocitano risorse e inquinano con percentuali clamorose, che sono sicuro ancora pochi conoscono nella loro reale portata. Un dato su tutti: coi cereali destinati agli allevamenti industriali si sfamerebbero nove miliardi di esseri umani.
E si potrebbe stare ore a evidenziare il ciclopico consumo di acqua, la piaga della deforestazione e, ovviamente, il grandioso contributo all’effetto serra. Ma il piano razionale quando si parla di cibo non ha spazio.
Il cibo smuove corde molto profonde, attaccamenti primari: le persone riversano sul modo in cui sono abituate a mangiare investimenti affettivi giganteschi e inalterabili. Il cibo è una questione molto più identitaria e incontrollata di quel che si pensa: genera identificazione radicale e quindi reazioni violente. Anche per questo non mi ha stupito la shitstorm che mi ha coinvolto qualche settimana fa su Twitter.
Shitstorm onnivora
Gli attivisti vegan credo possano scegliere di essere concilianti – Carol J. Adams consigliava di «parlare ai mangiatori di carne come parleresti a un animale selvatico: dolcemente e senza movimenti improvvisi» – o provocatori: in quell’occasione ammetto di non aver seguito esattamente il consiglio dell’autrice de La politica sessuale della carne.
Piuttosto d’impulso ho scritto: «Gli onnivori mangiano prevalentemente a caso e male. La base alimentare dovrebbe essere per tutti vegetale, invece l’italiano medio pranza e cena a base di salumi e ragù, però ti dice: no ma io carne pochissima, quasi mai. Mangiare carne oggi, in occidente, non ha nessuna motivazione, se non il “perché mi va”. Un vizio quindi, che nel breve periodo diventerà sempre più costoso, com’è giusto che sia, dato che è osceno venerare cani e gatti e poi pagare uno-due euro la vita di un altro animale, colpevole solo di non poter beneficiare di narrazioni che lo mettano al riparo dai mattatoi».
Ho ricevuto insulti per tre giorni, ma la cosa non mi ha scomposto più di tanto. Ho trovato invece interessante il tentativo di sanzionare il tono dei miei tweet. “Hai usato i toni sbagliati”, hanno scritto i più pacati. “Moralizzatore, pensi di avere la verità rivelata”. Gli onnivori chiedono toni sommessi, delicatezza, ovvero, in sostanza, la negazione della brutalità a cui, coi loro consumi, partecipano. Perché purtroppo non c’è nulla di quieto o delicato nel mangiare carne (e ahimè neanche latte, uova, formaggi, come si può facilmente scoprire documentandosi): allevamenti e mattatoi sono luoghi di sofferenza e annichilimento, ma gli onnivori non vogliono sentirselo dire.
Il terzo incomodo
Gli attivisti antispecisti possono optare per la pacatezza o l’impeto, lo stimolo o l’urto, è affar loro: è sbagliato pensare che gli onnivori, solo perché aderenti alla tradizione, partano da una posizione neutra o di innocenza. Non vale l’“ognuno mangi quello che vuole”, come tanti propongono. Non si tratta di una dieta piuttosto che un’altra, perché gli animali non vogliono essere stipati, deportati e soppressi, e gli antispecisti si assumono il compito, impervio, e forse tragicamente utopistico, di ricordarlo. Non vale l’“ognuno mangi quello che vuole” perché la questione non si gioca solo tra esseri umani, contendenti/avversari dialettici. Non si gioca solo tra pari. C’è un terzo incomodo, l’animale, la più oppressa tra le minoranze.
“Lasciatelo stare, è una cosa comune tra i gay”, dice mio zio, e nessuno commenta. Bicchieri tintinnano, acciottolio di posate.
Tavole natalizie
Io chiudo gli occhi, fisso la tovaglia di plastica rossa e mi libro in aria. Si scoperchia il tetto di questa casa piena di gente ingolfata di grassi e riluttanza, e siamo liberi, io e gli animali di questa e tutte le altre tavolate natalizie imbandite a morte dal buon cuore cristiano. Zompettanti e al galoppo, ruzzolanti e in volo, musi e code su verso il cielo, di nuovo vivi: tornano nei mari e nei fiumi i pesci, nei prati i mammiferi, tornano nei luoghi in cui non sono mai stati, nella natura da cui l’oppressione tecnoindustriale li ha sottratti sin da principio.
Una cascata aerea di esseri senza più gabbie e camion della deportazione, capannoni ricolmi di liquami e pistole captive, senza più stordimento elettrico e dissanguamento, senza più urla di terrore in coda al macello mentre il compagno viene abbattuto, mentre l’inserviente ti spinge a calci verso l’inesorabile. Niente più di tutto questo, ci dileguiamo via, proiettati altrove, attraverso le stelle e le nuvole, verso il futuro che quasi tutti esorcizzano, il tempo della liberazione degli animali non umani, corpi minori desiderosi di rifugio e tenerezza, gioco e relazione, corpi in cui è facilissimo rispecchiarci, se solo proviamo a spezzare il sortilegio nero della rimozione. È questa la famiglia che io riconosco, il legame di sangue a cui ho scelto di essere fedele.
La responsabilità che, in quanto essere razionale, sento di avere. L’animale ci guarda, oggi e sempre, attraverso il suo sacrificio inutile, perpetrato per vizio o indolenza, comodità, ci guarda e senza bisogno di linguaggio verbale continua a domandare: davvero voi umani vi sentite così piccoli e fragili da non riuscire a lasciarci stare?
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