«Giorgia Meloni è stata qui. La Meloni ci farà arrestare tutti, dobbiamo rimanere nascosti». La notizia della visita della premier italiana in Libia è arrivata anche nei più piccoli e nascosti caffè di Zuwara. Proprio lì, ogni mattina si accampano per qualche ora i migranti che il governo tunisino ha esiliato in Libia. «Quando ci hanno abbandonato nel deserto – racconta Herman, un giovane sudanese deportato dalla polizia tunisina – l’unica soluzione per non morire era cercare di raggiungere la città più vicina. E così siamo arrivati a Zuwara. Ma la Libia ci fa paura, perché sappiamo cosa succede qui».

Insieme ad un gruppo di amici, quattro ragazzi e una ragazza, Herman ora cerca di racimolare i soldi per un posto su un barcone direzione Italia, come del resto fanno quasi tutti i migranti in Libia. Ma nell’ultimo periodo la gestione delle partenze dalle coste nordafricane ha subìto un rallentamento. Secondo le fonti, infatti, le barche in partenza sarebbero diminuite di molto e i posti sarebbero stati “venduti” con un diverso criterio. Effettivamente, i conti sembrano tornare.

I dati del Viminale dicono che dall’inizio dell’anno e fino a 5 luglio sono sbarcati in Italia 14.755 migranti provenienti dalla Libia, con un calo del 47,44 per cento rispetto al 2023.

Contemporaneamente, però, la presenza di migranti in Libia negli ultimi mesi è aumentata, nonostante tutti ormai, dal nord Africa al sud del continente, conoscano i rischi di attraversare il paese. In occasione del Forum Trans-Mediterraneo sulle Migrazioni che si è svolto a Tripoli, il Governo di unità nazionale (Gun) ha denunciato la presenza di oltre 2milioni di stranieri irregolari. In realtà, sebbene non vi siano stime ufficiali, per l’Oim i numeri sono ben diversi. Potrebbero essere circa 800mila i migranti in Libia, arrivati per imbarcarsi subito verso l’Europa o per stabilirsi temporaneamente, per lavorare e intanto racimolare i soldi per la partenza.

Consapevoli del pericolo

«In queste settimane – racconta Mamou, una giovane ivoriana – la polizia ha fatto dei rastrellamenti e ha imprigionato moltissime persone senza alcun motivo. E intanto, i mediatori ci dicono che le partenze sono bloccate per ora. Non sappiamo se per il cattivo tempo, ma crediamo di no. Hanno aumentato i prezzi – dice ancora Mamou - perché si dice che non ci siano molte barche disponibili». La ragazza è nascosta insieme ad altri compagni di viaggio, ha il terrore di essere messa in un lager e di perdere i soldi che ha già pronti per il viaggio, ma per ora niente si muove.

Il calo delle partenze, in realtà, è quasi certamente una mossa politica. Secondo le organizzazioni internazionali, infatti, la Libia sta cercando di ottenere maggior credibilità in Europa mostrando di essere da un lato capace di bloccare le partenze, soprattutto se aumentano i finanziamenti alla guardia costiera, e dall’altro di essere un Paese con evidenti problemi di immigrazione per cui è necessario elargire più fondi. Proprio per questo durante il Forum il primo ministro libico Abdul-Hamed Dbeibah ha chiesto più soldi all’Italia e all’Ue.

Non solo, si è anche proposto di guidare un coordinamento integrato da diversi Paesi di transito, come il Niger e il Ciad, per bloccare i flussi migratori e respingere chi tenta di arrivare sulle coste del nord Africa. Con qualunque mezzo. «La parte più difficile del viaggio è proprio nel Sahel – racconta Herman – perché ci sono milizie che bloccano le carovane e chiedono soldi per continuare il viaggio. Chi non paga viene rapito o picchiato. Spesso questi uomini usano le donne come strumento di pagamento e se qualcuno dei presenti si oppone, viene ucciso».

I milioni di euro che l’Ue potrebbe elargire al coordinamento guidato dalla Libia andrebbe, dunque, a finanziare tutto questo. «Purtroppo, sarà difficile che, anche con più soldi, la situazione migratoria in Libia possa migliorare – ha spiegato Tim Eaton, analista esperto di nord Africa del Chatham House di Londra – soprattutto perché sono le stesse varie autorità governative, con l’aiuto delle milizie, a gestire il traffico di migranti». Nella zona ovest della Libia a capo del governo c’è Abdul Hamid Dbeibah, leader riconosciuto dalla comunità internazionale. Nell’area est, del Paese, invece, il potere è nelle mani del generale Khalifa Haftar, il quale negli ultimi anni ha delegato molti affari al figlio Saddam. Lo scorso 30 maggio il giovane Haftar è arrivato a Roma per incontrare un gruppo di imprenditori statunitensi e convincerli a finanziare un porto nella zona di Susah. Il progetto, per un totale di 2miliardi di dollari, porterebbe alla costruzione di un nuovo scalo commerciale internazionale.

Sarebbe un’occasione ghiotta per la famiglia Haftar, che vedrebbe ampliare le infrastrutture per gestire gli affari. Secondo le fonti investigative, gli interessi del trentaquatrenne Saddam sarebbero vari: armi, droga, ma soprattutto uomini e donne. Ci sarebbe proprio lui, infatti, a capo della rete che gestisce il traffico di esseri umani e con la sua milizia, la Brigata Tariq bin Ziyad, gestirebbe anche i respingimenti e i recuperi. I trafficanti incassano i soldi per il posto sul barcone, prendono una percentuale dalla guardia costiera che li riporta indietro e spesso sono gli stessi miliziani a fare i respingimenti, per poi incarcerare i migranti e chiedere ancora soldi per la liberazione.

È un business che non finisce mai. «Sappiamo che di recente hanno arrestato moltissime persone e che sono stati compiuti innumerevoli atti di violenza nei confronti dei migranti», dicono dall’associazione Refugees in Libya. Lo scorso marzo, nell’area di al-Jahriya, nel sud ovest della Libia, è stata trovata una fossa comune con 65 corpi. Sarà quasi impossibili identificarli, soprattutto perché le autorità libiche, nonostante le richieste dell’Onu, non hanno voluto aprire un’inchiesta.

È stato Volker Turk, l’Alto Commissario delle Nazioni unite per i Diritti Umani, a spingere la Libia a far luce sull’accaduto, eppure, ad oggi risulta essere solo un altro crimine impunito. «Non è detto che non ce ne siano altre di tombe di sabbia – dice Herman – è da oltre un anno che la Tunisia abbandona gente nel deserto e, anche se cerchiamo di tenere i contatti, molti amici sono spariti nel nulla. Molti sono morti di sete, di caldo, di fatica. Sono fortunato ad essere riuscito ad arrivare in Libia. Per ora sono vivo».

Metodi crudeli

Anche la Tunisia, con cui l’Italia ha firmato un memorandum, usa i soldi per respingere e calpestare i diritti umani e per ricattare l’Italia e l’Ue. Come sta accadendo nuovamente in Libia.

«Gran parte dei soldi dell’Ue finiscono nelle mani di chi contribuisce al traffico di esseri umani – ci spiega un attivista libico - oppure riempiono le tasche delle milizie che utilizzano i metodi più crudeli per bloccare le persone e per trasformarle ancora e ancora in strumenti per fare soldi». Alcune donne hanno raccontato di essere state incarcerate nei lager, stuprate e spostate di prigione in prigione a seconda di quale milizia le comprava.

È questo il paese sicuro a cui l’Europa vuole dare ancora più fondi per la gestione dei migranti. Di recente, poi, sembra sia nata una nuova “unità” con il compito di intercettare i migranti e recuperare le barche. A inizio luglio, durante un soccorso da parte della nave di Sos Mediterranee, degli uomini armati e con il passamontagna hanno cercato di interrompere il salvataggio. E quando i soccorritori non si sono allontanati, dopo che i naufraghi terrorizzati si sono buttati in acqua, hanno portato via l’imbarcazione in legno vuota. Non è chiaro chi siano questi uomini, né quale sia l’obiettivo. Di sicuro, il terrore dei migranti di essere riportati in Libia è stato superiore alla paura di annegare.

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