Non le abbiamo viste arrivare perché c’erano già. La squadra italiana non ha vinto mercoledì la Billie Jean King Cup surfando sull’onda d’urto provocata dalla devastante esplosione di Jannik, ma ci è riuscita percorrendo un cammino proprio, cominciato quasi vent’anni fa. Alla guida della Nazionale Tathiana Garbin, da giocatrice una sorta di hippy che andava ai tornei in autostop
Non le abbiamo viste arrivare perché c’erano già. Niente effetto Sinner. La squadra italiana non ha vinto la Billie Jean King Cup surfando sull’onda d’urto provocata dalla devastante esplosione di Jannik, ma ci è riuscita percorrendo un cammino proprio. Che giustamente reclama la sua indipendenza rispetto al clamore che sta accompagnando le prodigiose imprese del rosso. Il successo di Malaga è frutto di un percorso faticoso e bellissimo che va ben oltre la conclamata inferiorità delle avversarie, le slovacche, travolte da Jasmine Paolini e Lucia Bronzetti nella finale di mercoledì sera; peraltro dopo aver spedito a casa la Polonia di Iga Swiatek. Un percorso con le radici nell’evento cardine che ha segnato un prima e un dopo nel tennis femminile azzurro: il successo in Fed Cup del 2006, a Charleroi, contro il Belgio di Justine Henin.
A voler essere un po’ romantici è bello ricordare che il successo di Malaga è arrivato a poche settimane della scomparsa di Lea Pericoli, in carriera ben più degli abitini corti disegnati per lei da Ted Tinling, lo stylist delle tenniste. Da Lea, dalla sua compagna di doppio Silvana Lazzarino, anni prima dalla sua conflittuale prima capitana di Fed Cup Lucia Valerio, ebbe inizio il cammino che avrebbe portato al palazzetto della cittadina mineraria belga. Nel settembre del 2006 Lea a Charleroi c’era, guardava Schiavone, Vinci, Santangelo e Pennetta, diceva a se stessa e a chi le stava vicino: vorrei tanto che le ragazze capissero che occasione hanno, a cosa sono di fronte, possono dare un senso a tutti i colpi che ho eseguito io. E le ragazze, allora capitanate da Corrado Barazzutti, capirono.
Sinner aveva allora cinque anni e, più che altro, iniziava a divertirsi sugli sci all’ombra della Croda Rossa. Il tennis maschile viveva nella speranza che Fognini e Bolelli, i virgulti più promettenti, fiorissero in fretta e magari cancellassero per sempre quella nuvola lattiginosa che avvolgeva il tennis italiano maschile, solo in qualche occasione squarciata da singoli lampi di luce.
La cittì
Di quella squadra non faceva parte Tathiana Garbin, che oggi ne è la capitana. Già allora rappresentava un unicum nel nostro tennis. Non solo perché aveva già battuto due top-10: Monica Seles a Indian Wells nel 2001 e soprattutto Justine Henin al Roland-Garros tre anni dopo. Tati (o Tax) si proponeva come qualcosa di simile a una hippie, una giocatrice on the road che a caccia di punti e di esperienze, aveva giocato tornei nel sudest asiatico con zaino in spalla e racchette in mano, senza un coach al seguito e approfittando, quando possibile, di fisioterapisti e medici reperiti in loco. Non disdegnando di chiedere passaggi in auto a colleghi e non: altro che il jet privato su cui Sinner ha ospitato Alcaraz per spostarsi da Pechino a Shanghai un mese fa.
Va bene il tennis, ma soprattutto quando è espressione di vita: Garbin è sempre stata così. E lo ha dimostrato anche nel corso degli ultimi due anni quando ha dovuto fare i conti con una rara forma di tumore. Lei, al contrario di come è stata spesso disegnata, non si è mai identificata con il suo male, ha sempre sottolineato la distanza fra la circostanza medica e la sua natura. Non ha personalizzato nulla e a ben vedere proprio questa sua essenza (condita da una bella dose di coraggio) è la cifra fondante della squadra che ha vinto a Malaga e che ha detto chiaramente anche agli osservatori più distratti: noi ci siamo sempre state e non abbiamo bisogno di traino, come un programma televisivo scadente, per trovare il successo.
La squadra
Un successo arrivato con una squadra che è un fantastico collage di eccezionali normalità. Sara Errani giocò una finale di Parigi e fu sconfitta solo da Maria Sharapova. Ha sfidato i sogghigni malevoli di chi, dopo il caso doping, la vedeva spostarsi da un torneo all’altro, spesso di valore assai inferiore al Roland Garros giocato da protagonista, alla ricerca più di un presente che non di punti. Ha ritrovato in Jasmine Paolini quella altra parte del sé tennistico che aveva perduto ai tempi della rottura con Roberta Vinci. A 38 anni si è sentita chiedere di proseguire fino a Los Angeles 2028, quando ne avrà 42, per tentare la conferma dell’oro in doppio conquistato a Parigi. Jasmine Paolini è diventata n.4 al mondo e ha giocato due finali Slam quando i più prevedevano per lei una seconda parte di carriera galleggiante nel quasi anonimato. Ci sono Elisabetta Cocciaretto e Lucia Bronzetti, esempi di applicazione maniacale; c’è Martina Trevisan che si perde e si ritrova continuamente. Tutte giocatrici che non hanno nella statura fisica la loro dote più favorevole: ma che hanno saputo trasformare questa caratteristica in un plus di energia.
Scrive Billie Jean King nella sua autobiografia: «Durante il mio percorso le persone hanno spesso pensato che fossi arrabbiata. Si sbagliavano: ero solo determinata». Sarà per questa comunanza di linguaggio e atteggiamento che BJK ha salutato con tanto fervore il successo delle italiane a Malaga. Un cammino simbolico ben lungi dall’essere concluso. Perché per loro, anche per loro, c’è ancora e sempre domani.
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