Alla prima edizione dei Giochi olimpici moderni, nel 1896, non aveva partecipato nessuna donna, mentre alla seconda c’erano ventidue atlete su 997, circa il due per cento del totale.

Non potevano però lanciare il giavellotto, correre i cento metri o partecipare alla staffetta perché il barone Pierre de Coubertin, fondatore delle Olimpiadi, lo riteneva «antiestetico». Era permesso solo competere nelle discipline considerate più “femminili”: tennis, croquet, vela, equitazione e golf.

Dal 1912 gareggiano alle gare di nuoto, e, con il passare degli anni, l’elenco di sport a cui prendono parte si allunga, anche se l’atletica rimane limitata alla presenza maschile. Tutto cambia con Alice Milliat, nata a Nantes nel 1884, appassionata di nuoto e canottaggio che organizza competizioni per dimostrare che anche il corpo delle donne è adatto all’atletica.

Ma il tentativo non basta per convincere il Comitato olimpico internazionale (Cio). Il punto di svolta è il 1922, anno in cui Milliat organizza le Olimpiadi femminili a Parigi. Partecipano settantasette atlete provenienti da cinque stati diversi, e sugli spalti, secondo le cronache del tempo, c’erano ventimila persone.

Il successo è così grande che da quel momento la politica sportiva nei confronti delle donne è costretta a cambiare. Nel 1928 possono partecipare ad alcune discipline dell’atletica, ma per vedere definitivamente caduti i pregiudizi sessisti del barone de Coubertin bisogna aspettare fino al 1984, quando anche a loro viene data la possibilità di correre la maratona.

Il XX secolo rappresenta una svolta perché le donne iniziano a pretendere un ruolo in un settore in cui, fino a quel momento, non erano accettate. Come scrive Giorgia Bernardini, autrice del libro Fondamentali (2024), «le donne che ai primi del Novecento diventano atlete olimpiche rappresentano una sfida, la rottura di uno schema sociale e culturale», perché lo sport contemporaneo, così come le Olimpiadi, era «nato nella seconda metà dell’Ottocento come spazio maschile».

Le motivazioni

Le atlete olimpiche erano ostacolate dal Cio, dominato da uomini, dalla scienza, che riteneva che uno sforzo eccessivo avrebbe danneggiato le loro funzioni riproduttive, e dagli stereotipi.

Noto è il caso di Fanny Blankers-Koen, sportiva olandese criticata perché era venuta meno ai suoi impegni domestici. Era infatti madre di due figli, ma aveva scelto di non rinunciare allo sport agonistico. Questa decisione le è valsa la vittoria di quattro medaglie d’oro olimpiche ai Giochi di Londra del 1948 e il soprannome di «mamma volante».

In novantasei anni la situazione è cambiata e il numero di atlete è cresciuto costantemente. Nel 1928 avevano preso parte ai Giochi olimpici ventisei donne e 438 uomini, nemmeno il cinque per cento. Alle Olimpiadi di Parigi di quest’anno, dal 26 luglio all’11 agosto, per la prima volta potremo parlare di piena parità sul campo di gioco a livello numerico: 5.250 uomini e 5.250 donne.

Quasi equo anche il numero di premiazioni previste, 152 eventi femminili, 157 maschili e venti misti, con ventotto dei trentadue sport in programma completamente bilanciati.

#GenderEqualOlympics

Il percorso per aumentare la visibilità femminile nello sport non inizia con questa edizione. È stato un cambiamento graduale caratterizzato dall’aumento delle atlete e da alcune edizioni simboliche, come Londra 2012 quando ogni delegazione ha avuto la propria partecipante femminile, o i Giochi della gioventù di Buenos Aires nel 2018 – il primo evento completamente equilibrato tra donne e uomini – o ancora Tokyo 2020 quando ogni squadra è stata incoraggiata ad avere due portabandiera, un uomo e una donna.

Parigi 2024 sembra voler continuare in questa direzione, tanto che uno degli hashtag dei Giochi è #GenderEqualOlympics, facendo però ancora un passo in più. Oltre a decisioni più formali – come la scelta del percorso della maratona, ispirato alla Marcia delle donne dell’ottobre 1789 – i Giochi di quest’anno prevedono di aumentare la visibilità delle atlete.

Per la prima volta l’ordine delle maratone sarà invertito: la maschile si correrà il 10 agosto e la femminile l’11 agosto, poco prima della cerimonia di chiusura. Inoltre, gli eventi sportivi sono stati programmati in modo da garantire ai media di bilanciare meglio la copertura, riservando uno spazio importante anche alle competizioni femminili, mettendole ad esempio nel fine settimana o in prima serata.

Un lavoro innovativo riguarda anche il linguaggio, con la pubblicazione delle linee guida aggiornate per aiutare i media a fornire una rappresentazione equa e rispettosa perché, come si legge sul sito ufficiale, «le due settimane di copertura olimpica sono un’opportunità unica per generare nuovi modelli di ruolo forti, positivi e diversi».

Non è raro che la narrazione delle atlete sia legata al loro aspetto fisico e alla vita personale. Le linee guida mirano a fornire le basi per celebrare le atlete per i loro risultati competitivi, al pari degli uomini. Inoltre, l’Olympic Broadcasting Services (Obs) – la radio-televisione ufficiale per le competizioni olimpiche – ha assunto trentacinque nuove commentatrici, portando la percentuale di donne vicina al quaranta per cento.

I prossimi passi

Nonostante i miglioramenti degli ultimi anni siano evidenti, non si può ancora parlare di piena parità nel mondo olimpico. Molto lavoro c’è ancora da fare alle Paralimpiadi, dove, secondo una ricerca del Sociology of Sport Journal, le donne nella scorsa edizione erano poco più del quaranta per cento.

Ma anche alle Olimpiadi persiste un gap in alcuni ambiti. Il numero delle allenatrici, ad esempio, è ancora molto inferiore rispetto a quello degli allenatori. Ai Giochi di Londra 2012 e Rio 2016 erano l’undici per cento, che è poi salito al tredici nella scorsa edizione. Avere anche allenatrici non è solo una questione di giustizia e di pari opportunità, ma apre la strada (e la possibilità di sognare) alle generazioni del futuro.

Se una società sportiva si affida unicamente alle competenze degli uomini, le bambine e le ragazze non valuteranno nemmeno come opzione la possibilità di diventare allenatrici nel futuro. E un discorso simile vale per le direttrici del Cio, che, nonostante siano aumentate negli anni, oggi si aggirano ancora intorno al trenta per cento del totale.

Il dato positivo è che pare ci sia consapevolezza di questa situazione e che si intenda intervenire non solo sugli aspetti formali, ma anche su quelli sostanziali. Per questo motivo il Cio ha attivato già nel 2022 il programma Wish (Women in Sport High-performance), un percorso di quattro anni per formare un centinaio di allenatrici e manager di massimo livello. Segno che la strada per la parità è ancora lunga, ma esistono gli strumenti per raggiungerla.

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