È una battaglia persa, quindi non chiamiamola così. Non si ferma il mare con le mani, e se la marea di cui si parla è quella che ha inondato e sopraffatto anche il modo di raccontare lo sport, possiamo solo ritirarci sulla striscia di sabbia residua e provare a guardare serenamente l’orizzonte. La marea è la solita, quella generata dai social, da cui oltre a sapere in presa diretta l'evoluzione dei calcoli di Tamberi, i raccontatori dei Giochi non hanno saputo o potuto prescindere nei 16 giorni di furibonda corsa a chi andava più veloce a cogliere e imporre l’argomento del momento.

Ma adesso che tutto si è fermato, ci si può chiedere con un po’ di calma: ma come ci sono stati raccontati davvero questi Giochi? Qual è stato il risultato del lavoro di mediazione che ancora sopravvive tra chi guarda o ascolta o legge e chi parla o scrive durante un grande evento sportivo?

Il mestiere dell’inviato

Cominciamo dal più vetusto dei modi: scrivere per qualcuno che legge, non importa se su un foglio di carta o su un telefono. Una volta era se non il più importante, almeno il più rispettato perché alternativo, integrativo o conseguente al racconto delle immagini e delle radio.

Si vedeva o ascoltava in diretta, si soffriva, ci si emozionava, poi sui giornali c’era qualcosa in più, o almeno di diverso, e questa era la missione degli inviati. Il giornale era lo spazio del pensiero, della riflessione e del racconto riposato delle storie. L’inviato andava sul posto, e le cercava.

Poi le scriveva in una forma che tenesse conto soltanto della forza della storia stessa e delle proprie capacità di restituirla al meglio, possibilmente rispettando il rigore di un canone. Quando i giornali decidevano chi avrebbe seguito un’Olimpiade, selezionavano la propria squadra rispettando criteri di competenza e capacità di scrittura – anche rapida. La personalità di chi scriveva andava a rafforzare quella del giornale.

Lo strappo di Pechino-Londra

Tutto ha cominciato a cambiare da Pechino 2008, ma ancor più da Londra 2012, quando nelle redazioni dei giornali la marea ha cominciato a salire. Non si tratta, è bene ancora ribadirlo, di stabilire cosa sia meglio o peggio, ma di cosa e come si scrive. Perché è un fatto che la marea, salendo, ha cambiato la testa di chi nei giornali decide cosa pubblicare, e, fatalmente, anche quella di chi scrive. E quando sono arrivati negli uffici centrali i monitor su cui scorrono in tempo reale i dati del traffico sui siti web, creando classifiche tra i contenuti con il solo criterio dei contatti generati – i click – il processo si è completato.

La missione degli inviati si è trasformata: primo, dare retta alla classifica, e alimentarla. Così, per fare uno dei tanti esempi possibili, se la foto di Ceccon che dorme nei giardinetti diventa virale, l’inviato dovrà confezionare un pezzo sui disagi del villaggio olimpico, anche se quello stava solo schiacciando un pisolino. A Parigi è andata così, dal primo all’ultimo giorno. Con un’aggravante: quei criteri di competenza e riconoscibilità di cui si parlava, e che formavano l’identità di un giornale – o di un sito web – si fanno sempre più fatica a identificare.

Con formula assai felice, Antonella Bellutti le ha chiamate qui «le Olimpiadi del sentito dire». Se la marea impone di occuparsi di un tema perché «sui social gira tanto», quel tema deve essere affrontato, e spesso finisce nelle mani di chi ne sa poco o nulla e si affida alla bella scrittura – vera o presunta – per confezionare un articolo a effetto, che nulla racconta, nulla spiega, nulla dà, ma anzi tutto toglie tranne i click.

La vicenda Imane Khelif, su questo, ha battuto i record olimpici e mondiali di incompetenza al potere, c’è perfino chi si è molto divertito a scrivere la parola pisello, stava bene nel pezzo.

Resistere

Eppure durante questi Giochi, sui giornali e in tv gli esempi di come si può resistere non sono mancati, da chi a Parigi è andato e da chi è invece rimasto a casa, cercando di usare pensiero e competenza per sfuggire al sentito dire. Ma il racconto sportivo, che fino alla prima decade di questo millennio pullulava di talenti così nobili da elevarlo a vera e propria letteratura giornalistica, resiste in riserve indiane. I tre quotidiani sportivi hanno sparato prime pagine trionfalistiche quando arrivavano gli ori, ma senza togliere dalla vetrina il calciomercato, che d’altra parte «interessa di più».

Sui generalisti, le infatuazioni più forti e durature sono arrivate per i presunti scandali: com’è brutta la cerimonia; come sono presuntuosi i francesi; come fa schifo la Senna; come si mangia male al villaggio; come sono sporchi e cattivi gli arbitri della scherma, del judo, della boxe, della pallanuoto. E poi le sentenze sparate a casaccio sulla cattiveria che manca ai fiorettisti, il buonismo che toglie medaglie, l’importante è partecipare che ha stufato in un’epoca dove o si vince o si perde e chi arriva quarto ha perso. Punto, con buona pace di Mattarella che li invita al Quirinale, ‘sti falliti.

ANSA

Come è bello parlare male, molto meglio che parlare bene. Com’è cool il chiacchiericcio da bar, porta tanti click. Mai come in questa occasione è stato vistoso lo scollamento tra chi scriveva e l’oggetto degli articoli: un’incomprensione totale del modo di stare al mondo e di vivere lo sport di ragazzi lontanissimi da chi li raccontava, palesemente senza sapere e senza capire, a volte strumentalizzandoli per pura ideologia, come nei grotteschi commenti sulle ragazze della pallavolo così brave e nere.

Ecco, allora non sorprende che dei Giochi, che sono stati invece belli belli, ma proprio belli, resterà la sensazione un po’ malinconica che solo delle immagini, e del pugno di indiani delle nostre piccole riserve assediate, possiamo fidarci davvero. Sono loro a dettare la nostra agenda, abbassando il volume della mediazione che da giornalistica è diventata clickistica, e che gli dèi delle parole ci perdonino.

La tv

La Rai ha fatto il suo, con il direttore dello sport, al passo d’addio, che ogni sera incarnava la figura del boomer di classe che vuole congedarsi con la dignità di un lavoro fatto bene, d’altra parte gli ascolti erano super. Certo, i suoi telecronisti hanno a volte esagerato, l’enfasi ha dilagato, c’è chi si è messo la mimetica nelle battaglie in pedana e in piscina, a qualcuno è sfuggita la frizione al punto da sentirsi vincitore egli stesso di una medaglia d’oro, e c’è chi ha dedicato alla nonna la radiocronaca.

Vabbé, si può perdonare, anche se perdonare non significa dimenticare o far finta di non vedere che la marea anche lì è già arrivata, con il suo virus di un linguaggio figlio dell’idea che essere sopra le righe garantisca visibilità personale, l’unica cosa che conta davvero. Il sospetto che anche chi racconta in televisione abbia come prima missione quella dei like su Instagram è già molto forte.

A Parigi ha ancora resistito altro, forse perché la vecchia guardia, fatta di altri boomer, ha difeso il suo spazio. A Los Angeles sarà tutt’altra storia. È la nuova stampa, bellezza. E non puoi farci niente.

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