L’audience televisiva delle Olimpiadi sta per schizzare molto in alto: martedì 6 le qualificazioni e giovedì 8 la finale del concorso in cui il campione uscente è l’idolo del paese più abitato sulla terra. Dove l’atletica è arrivata grazie a Otto Peltzer, mezzofondista tedesco che là trovò riparo, perseguitato dal nazismo per la sua omosessualità
L’audience televisiva delle Olimpiadi sta per schizzare molto in alto. Tutta l’India comincerà a fare il tifo per il suo campione uscente: Neeraj Chopra, oro nel giavellotto a Tokyo, prima e unica vittoria nella storia dell’atletica olimpica per quello che da poco è diventato il paese più abitato del mondo. Un miliardo e 417 milioni di persone, il 18 per cento della popolazione del globo. E lo 0,67 del medagliere di tre anni fa: sette medaglie. A Parigi per adesso è a tre. Ma ora tocca a lui.
Chopra, uno dei padroni del pronostico in pedana, è cresciuto lontano dalle metropoli della penisola: viene da Khandra, piccolo centro un centinaio di chilometri a nord di Nuova Delhi. Il suo vivere lontano da casa lo porta ad amare tantissimo, parole sue, le rimpatriate familiari con lunghe chiacchierate fino a notte fonda, come nel Diwali, la festa delle luci, nell’ottobre scorso. Alla gente piace questo suo riservato modo di essere, parlare soprattutto con i lanci ma anche in alcune, particolari occasioni, come quando difese la causa delle ragazze della lotta, protagoniste di una clamorosa e coraggiosa protesta contro il presidente della loro federazione accusato di abusi.
Farà il tifo per loro, ma anche per la nazionale maschile di hockey prato, che ha conquistato la semifinale eliminando niente meno che l’ex madre patria Gran Bretagna ai quarti di finale grazie ai rigori, nonostante un bel po’ di partita con un uomo in meno per un’espulsione. Prima però il giavellottista deve qualificarsi. Ci proverà martedì 6 allo Stade de France, per la finale se ne riparlerà invece giovedì 8.
Il ruolo di Otto Peltzer
Chissà se a Chopra hanno mai raccontato un po’ di storia dell’atletica indiana. E del ruolo che in questo percorso ha avuto un personaggio. Era tedesco, si chiamava Peltzer di cognome, Otto di nome, al quale si aggiungeva un aggettivo: “lo strano”. “Otto lo strano” non salì mai sul podio alle Olimpiadi, colpa di un infortunio occorso in una temeraria partita di pallamano che ne limitò il rendimento ai Giochi di Amsterdam 1928, e probabilmente di una curiosa vicenda di scarpe troppo strette al Coliseum di Los Angeles quattro anni più tardi: arrivato in finale, si ritirò. Ma Otto fu un mezzofondista di grande classe, un “artista” della corsa, collezionista di primati, capace di battere a Berlino nel 1926, con tanto di record del mondo dei 1500 metri, niente meno che Paavo Nurmi, il corridore mito di un secolo fa, nove medaglie d’oro olimpiche raccolte in tre edizioni, ai tempi in cui la Finlandia era l’Africa di oggi. Fra i due nacque un’amicizia strepitosa, durata tutta la vita.
Peltzer era una stella dello sport di quei tempi: acclamato negli stadi, celebrato dai media, invitato da mezzo mondo per le sue imprese con gli statunitensi che lo volevano professionista e gli offrirono 250mila euro per ingaggiarlo sentendosi rispondere: «Non se ne parla, se accettassi dovrei rinunciare alle Olimpiadi». Poi, un giorno, si fece buio: lo accusarono di omosessualità, articolo 175 del Codice Penale di allora. Arrivò una prima condanna a 18 mesi di carcere e di fatto la fine della carriera, così la vigilia dell’Olimpiade di casa, quella di Berlino, la trascorse in galera. Poi i nazisti lo liberarono, in tempo per vedere qualche gara.
Otto «lo strano» era stato sedotto, almeno apparentemente, da Hitler. Si sarebbe dovuto ricredere finendo in una voragine che condizionò tutta la sua vita. L’essere gay in quella Germania era un delitto, lo inseguirono ovunque, soprattutto in Svezia dove stava cominciando una carriera di allenatore all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Fu costretto a tornare. Finì invece nel campo di concentramento di Mauthausen, in Austria. Lunghi, interminabili mesi. La guerra finì, la persecuzione no. Nella nuova Germania federale restò sotto accusa nonostante la sua preparazione, i suoi libri, i suoi record, le mille testimonianze del suo impegno come atleta ed educatore. Negli stessi anni, successe qualcosa del genere all’inglese Alan Turing, uno dei padri dell’informatica, che aveva svelato i codici tedeschi durante il conflitto e che sfiorò pure una partecipazione olimpica nella maratona: fu condannato a un’abbuffata di farmaci “terapeutici” che finì in un ancora misterioso suicidio.
Il discredito
A Peltzer andò meglio. Ma fu necessario un lungo giro del mondo: Australia, Nuova Zelanda, Iraq, Iran, Pakistan… A ogni tappa lo aspettava una campagna di discredito della diplomazia tedesco-occidentale. Fino all’India. Fece i conti con l’immensità di un Paese in cui l’atletica era totalmente sconosciuta. Per arrivare a Chopra e al suo giavellotto, fu necessaria una complicatissima scalata. E “Otto lo strano” ci mise tutto sé stesso, ma proprio tutto, spendendosi nella causa in modo infaticabile. Si prese una stanza nello Stadio Nazionale di Nuova Delhi e da lì prese ad allenare, guadagnando e mangiando poco (una sola volta al giorno), a lavorando (tanto): la giornata finiva nelle sedi dei giornali dove chiedeva di pubblicare i risultati dei suoi atleti.
Spiegò che d’inverno non si poteva mollare tutto e bisognava continuare a fare attività, che la corsa era propedeutica anche per un saltatore con l’asta, così di domenica mattina, all’alba, portava il suo gruppo a correre sulle strade della capitale. Tanto fu odiato tanto fu amato dai tanti a cui fece scoprire l’atletica. Ma la sua salute era precaria, continuò a girare per Olimpiadi (a Roma aveva accompagnato Milka Singh, specialista dei 400 metri, arrivato in finale ma vittima di una partenza spericolata) fino al momento in cui il suo cuore disse una prima volta aiuto. A quel punto tornò a casa. Sempre a studiare, a scrivere, a predicare quel “play and study” che era stato il suo cavallo di battaglia dagli anni della Repubblica di Weimar fino alla giovane indipendenza indiana. Prima di lasciare questo mondo nel 1970.
E così sulle spalle di Chopra, con i suoi 9 milioni e 100mila follower su Instagram (due in meno di Simone Biles, ma nove volte quelli di Noah Lyles), c’è anche questa storia. La storia di questo Doc che somigliava a Sherlock Holmes e che da un qualche lassù stamattina farà il tifo sicuramente anche per lui.
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