Mattia Furlani è un predestinato. Nel 2021 agli Europei under 18 di Gerusalemme ha vinto l’oro nel suo salto in lungo, con 8.04m, ma ha vinto anche la medaglia d’oro nel salto in alto, con 2.15m. E alle Olimpiadi di Parigi il suo 8.34m gli è valso un bronzo pesantissimo.

È un talento enorme, con mamma Kathy Seck che lo allena, poi c’è papà Marcello: entrambi ex atleti che non lo hanno mai costretto a fare atletica. Lo ha scelto lui. Un diciannovenne che però da anni ha sulle spalle pressioni del tipo: «Furlani deve arrivare», «Mattia, ma quando vinci qualcosa di importante?».

Foto: GRANA /Federazione Italiana Atletica
Foto: GRANA /Federazione Italiana Atletica

Pressioni che lui cerca di togliersi di dosso, ma non sempre è facile. L’anno scorso ai mondiali di Budapest ci è arrivato a 18 anni, era il suo primo appuntamento nel mondo dei grandi. Ma ha completamente sbagliato gara, non si è nemmeno qualificato per la finale. Delusione? Sì, ovvio. Anche perché si presentava con misure importanti, un 8.24m saltato nelle settimane precedenti, e pure 8.44m ventoso (quindi non omologato).

Ci è rimasto male, sì, ma non si è demoralizzato. È tornato ad allenarsi, convinto, seguendo il suo percorso di crescita. 

Educazione e simpatia

I Giochi di Parigi si stanno trasformando in una vetrina splendida, ma pure educativa per conoscere meglio i giovani atleti della nuova generazione. Da Furlani a Benedetta Pilato, da Chiara Pellacani nei tuffi a Filippo Macchi nella scherma.

Sono ambiziosi, molto, moltissimo, e lo dichiarano pure, ma lo fanno con un mix di educazione e simpatia che non li fa apparire sbruffoni. Sono spavaldi che non se la tirano. E soprattutto hanno quel senso di gratitudine che prevale sul risultato, il senso di sapere il percorso fatto, quello che in pochi vedono perché i riflettori non ci sono.

La frase che ripete più spesso Mattia Furlani è: «Non mettetemi fretta, non posso saltare 8.50m perché ho una crescita biologica che devo rispettare, un ciclo naturale che durerà almeno quattro anni».

Giovani atleti che non cercano giustificazioni, non voglio nemmeno buffetti o abbracci di pietismo del tipo: poverino, tu comunque ce l’hai messa tutta.

No. Vogliono essere aspettati. E hanno la pretesa di essere ascoltati.

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