Inserirsi nuovamente nel mercato del lavoro, dopo aver percepito il sussidio di disoccupazione Naspi, è sempre più difficile, soprattutto per le persone che devono rientrare nel mondo del lavoro dopo i 50 anni. È la storia di Aurelio Bocchi, di 64 anni, che per anni ha lavorato presso una ditta che operava per Fincantieri nella manutenzione di navi militari, poi chiusa. Da allora si è dovuto reinventare, cambiando regioni e tipologie di lavoro, fino ad arrivare a Padova a lavorare come addetto alla vigilanza.

Nel primo lavoro guadagnava 5.400 euro netti al mese, ma al primo contratto in regione Veneto si è trovato a ricevere in busta paga 830 euro netti: «Sopravvivevo a stento, facevo degli altri lavoretti per arrivare a fine mese». A Domani racconta che solo le lotte sindacali con il sindacato Adl-Cobas di Padova, che poi lo hanno visto in prima linea come rappresentante sindacale, gli hanno permesso di vedere un aumento a 1.300 euro netti, calcolando anche la quattordicesima: «Sono stato il primo ad esporsi per cambiare questa tipologia di contratto. Le lotte sindacali le abbiamo fatte solo con un venti per cento di lavoratori, perché nessuno degli altri colleghi voleva aderire».

Lavoratrici e lavoratori over 50: i nuovi esodati

Lavoratrici e lavoratori che hanno più di cinquant’anni sono più fragili, come spiega a Domani Salvatore Monteduro, segretario Uil di Milano e della Lombardia: «Trovano una difficoltà maggiore nel reinserirsi in un mercato di lavoro dinamico e che richiede competenze elevate». Questo accade perché «chi era inserito nel mercato del lavoro ha spesso percorsi di istruzione e formazione molto bassi, che non superano la licenzia media».

I percorsi di politiche attive che si fanno tramite il programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori (Gol), «sono molto standardizzati e questo impedisce di avere una formazione che sia tipizzata rispetto alle necessità del singolo soggetto». C’è una grande difficoltà nel rientrare, anche dopo una formazione, all’interno del mercato del lavoro che si sta polarizzando: «Chi ha competenze elevate nella digitalizzazione è facilitato a trovare un lavoro. Chi non ha competenze di questo tipo ha una grossa difficoltà di reinserimento». Questi soggetti, per il segretario, «sono i nuovi esodati».

Alla fine ci si trova ad accettare un lavoro con paghe estremamente basse: «Il lavoro povero investe tutto il mercato, ma tocca di più chi è in questa fascia d’età». Per Rossella Marinucci, Coordinamento mercato del lavoro e politiche attive per la Cgil nazionale, ci sono anche differenze di genere: «Le donne over 50 affrontano maggiori difficoltà nell'accedere, permanere e rientrare nel mercato del lavoro rispetto ai loro coetanei uomini». Nonostante un aumento generale dell'occupazione in questa fascia d'età, «le donne continuano a essere sottorappresentate.

Nel 2023 il tasso di disoccupazione per le donne tra i 50 e i 74 anni è stato del 5.4 per cento (contro il 4.3 per cento degli uomini) e il tasso di inattività per le donne tra i 50 e 64 anni è stato del 44 per cento (mentre per gli uomini del 22.2 per cento)». Per la Cgil serve una presa in carico personalizzata, pubblica e gratuita delle persone disoccupate, «che faccia proprie le problematiche che rendono le cose più difficili alle persone più adulte».

Sono tanti e diversi i motivi per cui si è disoccupati dopo i 50 anni: «Espulsioni da settori ormai fuori mercato, carichi di cura familiari, competenze non più idonee. L’avanzamento rapidissimo di nuove tecnologie richiede orientamento, formazione mirata e continua, attivazione, accompagnamento e misure di conciliazione e condivisione delle responsabilità familiari».

Gol: l’attività formativa non è adeguata per trovare lavoro

Per parlare di mercato del lavoro, bisogna parlare delle misure per il reinserimento al proprio interno. Raimondo Bosco è ricercatore e consulente presso Svimez, Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno.

A Domani racconta come funziona il Programma Gol: «Si rivolge alle persone in cerca di occupazione, percettrici di un ammortizzatore sociale o di una misura di sostegno economico di integrazione al reddito; ma anche a lavoratrici e lavoratori fragili e disoccupati con minori chance occupazionali, senza sostegno al reddito». Il modello adottato in Gol, però, non sembra aver contribuito in modo funzionale alla governance del sistema delle politiche attive. Secondo Bosco, infatti, «il potenziamento dei Centri per l’impiego non ha indotto l’ampliamento dell’organico necessario per gestire l’utenza coinvolta nel programma».

Questo aspetto appare particolarmente rilevante «nelle regioni del Mezzogiorno, caratterizzate da grandi volumi di utenza, che spesso presentano bisogni complessi, anche in ragione delle criticità dei mercati del lavoro locali». Secondo Bosco i problemi sono maggiori «quanto più elevata è la vulnerabilità dei lavoratori in termini di sesso, età ed esigenza di riqualificazione professionale oltre che per le carenze di domanda di lavoro, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno. In sostanza, l’attività formativa che viene fatta non è adeguata per trovare un posto di lavoro».

Dalla Naspi alla disoccupazione

Per i percettori della Naspi, l’indennità mensile di disoccupazione, la situazione è durissima. Dopo un massimo di 24 mesi, spiega Biagio Quattrocchi del sindacato Clap di Roma, il reddito erogato finisce e molte persone, nonostante i programmi di reinserimento nel mondo del lavoro, rimangono disoccupate: «Con l'eliminazione del reddito di cittadinanza non hanno più una rete di protezione e di servizi forniti dall’amministrazione pubblica».

Fino all’abolizione del reddito di cittadinanza, se entro 24 mesi non si trovava un impiego, «veniva in soccorso un reddito di ultima istanza che permetteva che il soggetto non cadesse in povertà. Ora questa misura non c’è più e non esiste una rete di protezione». In tanti si reinventano in settori di lavoro durissimi, «come quello del food delivery, in cui l’età media è sempre più alta».

Parliamo di persone oltre i quarant’anni che girano le città in bici o in scooter a consegnare pasti alle famiglie, con pochissimi diritti e tutele contrattuali: «Ci sono persone che devono arrangiarsi così, con stipendi da fame e in condizioni lavorative avverse». Per Quattrocchi viene data una grande attenzione alle politiche attive del lavoro «ma se non c’è un collegamento con le politiche industriali, che agiscono sulla domanda di lavoro, il rischio è che i problemi sociali non si affrontino».

Il lavoro in Italia? Poco e povero

Secondo i dati Istat di Gennaio 2024, la disoccupazione è aumentata lievemente tra le donne e gli ultracinquantenni. L’occupazione è calata dello -0,1 per cento tra gli uomini, gli under 34, i dipendenti a termine e gli autonomi. E’ invece cresciuta tra le donne e tra chi ha almeno 50 anni.

Nonostante gli ultimi dati registrati, Luca Dall’Agnol, sindacalista dell’Adl-Cobas di Padova, racconta a Domani: «Le retribuzioni sono ferme da trent’anni e non tengono il passo dell’inflazione. I salari sono scesi per tanti motivi, tra cui le grandi trasformazioni economiche che hanno visto un aumento dei posti di lavoro nei settori dove sono richieste competenze più basse e le retribuzioni sono inferiori rispetto al mondo manifatturiero».

Molti lavoratori usciti dalle aziende hanno difficoltà a reinserirsi all’interno del mercato del lavoro: «Sono schiacciati verso i settori più poveri dal punto di vista della remunerazione, con contratti da fame». Essere lavoratrici e lavoratori poveri, dunque, significa: «Attraversare appena la soglia della povertà assoluta. Viene stimato che ci siano 5 milioni di lavoratori che hanno retribuzioni orarie lorde inferiori ai 9 euro. Molte sono lavoratrici donne e molti sono over 50, sia italiani che migranti». Le persone sono in difficoltà a sostenere tutte le spese: dal pagare l’affitto ad accedere al diritto alla salute. Una fotografia che dimostra che si è poveri anche se si lavora e che le disuguaglianze sociali, soprattutto per certe soglie d’età, sono in aumento.

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