Negli ultimi vent’anni i salari sono diminuiti e i diritti dei lavoratori sono stati erosi, proiettando l’Italia stabilmente in fondo alle classifiche europee sull’occupazione. Le riforme del governo Meloni promettono di aggravare le malattie croniche del sistema, scaricando i costi su chi disperatamente insegue un lavoro che non c’è
«Il diritto al lavoro, diceva Norberto Bobbio, come i diritti di prima e seconda generazione, non è un diritto assoluto, ma cambia in funzione di quello che succede nella società: se nella società non succede niente anche i diritti più elementari si perdono».
Questo ci spiega Roberto Romano, economista dell’associazione Està (economia e sostenibilità). E in Italia dal 2000 ad oggi non è successo niente. «Mentre negli Stati Uniti in Cina, Germania, Francia – continua Romano – all’aumentare degli investimenti delle imprese aumentava anche il contenuto tecnologico, perché la domanda evolveva, cambiava. Si pensi alle automobili di oggi, non sono in nessun modo associabili ad automobili del 1990, hanno un contenuto tecnologico estremamente più alto si pensa il software la guida assistita eccetera. Quindi chi produce l'automobile ha bisogno di maestranze di forza lavoro con competenze più alte».
Ecco l’Italia questa dinamica non l’ha colta. «Dal 2000 in poi, le imprese italiane hanno fatto più o meno la stessa quantità degli investimenti di quelle tedesche e francesi, ma l’intensità tecnologica è sempre stata, e ormai lo è strutturalmente, la metà di quella degli investimenti dei paesi cugini».
L’Italia insomma produce beni e servizi che non necessitano di ricerca e sviluppo, la forza lavoro è per due terzi formata da persone con competenze tecnologiche basse e il valore aggiunto prodotto è inferiore rispetto agli altri principali paesi europei.
Secondo le teorie dell’economista è questo che comprime verso il basso i diritti dei lavoratori. «Settori con competenze più alte vengono remunerati di più, è logico, e la tendenza italiana che porta alla precarizzazione, a salari bassi secondo me non è casuale».
Il profitto, insomma, le imprese, lo fanno sul lavoro. È per questo forse che il salario medio in Italia è uno dei pochi ad essere più basso nel 2022 che nel 2008? (Con noi, va ricordato, anche se in misura minore, c’è anche la Gran Bretagna).
Primo maggio 2023, cosa segna il termometro del lavoro in Italia? Ancora febbre si direbbe, nonostante il governo di Giorgia Meloni abbia scelto proprio il giorno di festa dei lavoratori come data simbolica per emanare il “decreto lavoro”.
O forse proprio per questo, visto che alcuni la vedono come provocazione nei confronti dei sindacati che oggi festeggiano in tutta Italia e considerato che ai sindacati, il decreto, Meloni lo ha fatto leggere in un incontro alle 19 di ieri.
Tra le ultime indiscrezioni ci dovrebbe essere sì un taglio del cuneo fiscale (molto misero per la verità), ma anche una maggiore flessibilità per i contratti a tempo determinato e un taglio del reddito di cittadinanza che si chiamerà d’ora in poi “assegno di inclusione”.
Contratti pirata
«Il fatto è che l’Italia dagli anni Novanta ha un andamento molto deludente della produttività rispetto agli altri paesi europei». Il professor Pietro Reichlin, che insegna economia e finanza all’Università Luiss di Roma, conferma le conclusioni di Romano dove produttività è il valore aggiunto.
L’Italia è ancora all’ultimo posto in Europa per i livelli di occupazione (60,2 per cento contro il 69,9 per cento europeo). «Uno dei motivi che si danno è quella relativa alle dimensioni imprese, che in Italia sono medio piccole, quindi poco capaci di aumentare la proprio tecnologia e di aumentare la produttività», continua il professore.
Per il professore della Luiss un altro motivo però è la contrattazione che è centralizzata. «Abbiamo dei contratti nazionali collettivi appiattiti, quando il costo della vita è molto diverso da zona a zona». Ritorno alle gabbie salariali? «No, no, ma va ricordato che in Germania la contrattazione avviene a livello regionale ed è molto più efficace».
Dopo di ché il problema vero è che in Italia la contrattazione collettiva non sta tanto bene, a fine 2021 il numero dei contratti depositati presso lo Cnel erano 992 di cui almeno un terzo contratti pirata (fonte Sole24ore/Cnel) ovvero contratti siglati da sindacati poco significativi se non farlocchi che portano a condizioni peggiorative per i lavoratori.
«Ci vorrebbere un salario minimo nazionale che potrebbe correggere quel problema dei lavoratori poveri», conclude Reichlin, «i sindacati non riescono a coprire tutti».
Il primo maggio non è festa
«Noi riusciamo a fare festa il primo maggio solo perché viene convocato lo sciopero e abbiamo la copertura, altrimenti con la liberalizzazione del decreto Monti sarebbe obbligatorio lavorare qualora ce lo chiedessero».
Marco Cataldo, 43 anni, lavora da 16 anni per H&M, Rsa FILCAMS CGIL, magazziniere per il negozio. «Certo se hai la fortuna di avere una compagna o un compagno che lavora nello stesso settore va bene si può decidere di lavorare entrambi, altrimenti c’è una perdita di socialità importante con la famiglia, con gli amici, con i figli. Cosa che si può capire per settori essenziali come la sanità o la sicurezza, ma per il commercio francamente no».
Uno dei metodi che utilizzano i grandi magazzini per non chiudere nei festivi sono i contratti a chiamata. «Dopo ilCovid sono un po’ diminuiti, ma prima per H&M erano il 20 per cento dei lavoratori». Come funziona? «Vengono chiamati contratti intermittenti, che però nel CCLN non sarebbero previsti».
In pratica si assume una persona, si prendono i dati per il contratto e da quel momento in poi l’unico obbligo che l’azienda ha è quella di dare 24 ore di preavviso per il prossimo turno lavorativo, che però non è garantito.
«Non c’è un monte ore minimo, prima c’era un’indennità di 3/400 euro anche se non ti chiamavano, adesso non c’è più. Si può chiamare una persona da 3 ore di lavoro in su, conosco persone, tra cui la mia compagna, che per fare 3 ore di lavoro si sono fatte due ore con i mezzi all’andata e due ore al ritorno».
Non si trovano camerieri!
Simone (nome di fantasia) ha 24 anni e la passione per i sonetti. «Ne ho tanti nel cassetto, se si potesse guadagnare da questo farei solo questo». Invece dopo il liceo linguistico ha lasciato gli studi: «Non avevo le idee chiare per l’Università e non volevo perdere tempo, avevo l’ansia di aiutare in famiglia. Avevo ben presente mio padre che ha fatto il magazziniere per anni a 500 euro al mese fregato dal suo datore d i lavoro».
Simone va prima a lavorare in un’officina fa un anno di apprendistato ma poi gli dicono che il lavoro è diminuito e l’ultimo arrivato, lui, se ne deve andare. Trova un cartello "cercasi personale” in un bar bistro del suo quartiere, si propone e inizia a lavorare.
«I primi tre mesi ho lavorato in nero prendendo 7/800 euro, ho fatto il banchista, il cameriere e poi sono andato in cucina». Poi arriva la proposta con contratto sempre da apprendista.
«Ti dico la verità, ci ho pensato un po’ perché non volevo un altro contratto di apprendista, non ero al primo lavoro». Alla fine Simone accetta e inizia a lavorare 40 ore da contratto, che è 1100 euro al mese più 8 in nero che lo fanno arrivare a 1250. Le otto ore in nero quindi vengono pagate 4,70 euro l’una.
«Guarda che in busta paga vengo pagato 5,96 euro l’ora». «Siamo sei persone tutte abbiamo 40 ore settimanali e ne lavoriamo 48, abbiamo un giorno di riposo che è sempre settimanale, il weekend è escluso. Ma non è tanto quanto vengo pagato o le ore di lavoro il fatto è quanto devo fare in quelle ore, dal macellaio agli ordini dai fornitori».
Chiedo a Simone se non si sia pentito a non provare neanche a fare l’Università. «Guarda ti dico la verità, la maggior parte dei miei amici ha fatto l’università ma non è che sia andata benissimo: il mio amico che ha fatto fisioterapia sta faticando per aprire il suo studio, la mia amica che ha fatto legge sta lavorando in nero in un’agenzia immobiliare...».
Precariato totale
Lucia (nome di fantasia) è una diversamente giovane, 35 anni, precaria privilegiata. «Sono il prodotto della borghesia decaduta, di quelli che guadagnano meno dei genitori – scherza - La mia famiglia mi supporta, mia madre era psicologa per la Asl e mio padre insegnante, quindi ho potuto studiare avere una casa e continuare a studiare anche dopo l’università».
Privilegiata sì, ma la sua storia lavorativa è emblematica, laureata al DAMS fa due anni di tirocinio gratuito in una ditta che faceva effetti speciali per il cinema: «Solo tardi ho capito che quest’azienda non aveva commesse dagli anni Settanta». Poi fa la scuola del fumetto, e, tramite conoscenze, inizia a lavorare come grafica per gli archeologi.
«In pratica vai sul sito e devi disegnare delle proiezioni, disegno tecnico, ma è bello perché frequenti gli scavi. Avevo iniziato come lavoretto estivo e in realtà sono 15 anni che me lo porto dietro». Questo lavoro però è saltuario, si lavora sui sei mesi l’anno, quindi cerca altri lavori.
«Ho lavorato per parecchio tempo in una pescheria – racconta – poi ho fatto la rider per Deliveroo per un paio d’anni, che era molto comodo si lavorava il weekend e più o meno si guadagnava 400 euro al mese. Poi è sempre andato peggiorando e ora non conviene più».
Poi ha lavorato in un forno. «Tre notti a settimana, ma il proprietario voleva che lavorassi lì tutta la settimana e per me era poi difficile mantenere l’altro lavoro». E poi di nuovo in pescheria da Eataly.
«Lì mi piaceva proprio, ma mi hanno fatto solo un contratto da un mese sotto le feste e poi mi hanno detto che non ero adatta. Se era vero? Non lo so francamente mi sembrava di aver imparato abbastanza». Adesso è approdata ad un lavoro in mensa.
«Sono 15 ore a settimana, che andrebbe bene per me – dice Lucia – il problema è capire dove. Durante il colloquio mi avevano detto che sarebbe stata in zona Monteverde, in realtà mi stanno mandando anche molto lontano. Se devo andare fuori raccordo metterci due ore di viaggio più la benzina, quanto mi conviene?».
Lavoratori? Prrrr!
E poi ci sono le crisi famose, le aziende “troppo grandi per fallire” o le truffe vere e proprie che hanno lasciato a casa 50enni troppo giovani per andare in pensione e troppo vecchi per lavorare.
Gianluca Usliga dice che lui andrà comunque al corteo del primo maggio: «Gli striscioni ce li ho ancora». Come ex Embraco? «Ho tolto l’ex, noi siamo Embraco ma la casa madre era Whirlpool».
Il 5 aprile c’è stata la fine del processo che ha riguardato quella che era l’Embraco di Riva presso Chieri (Piemonte), il giudice per le udienze preliminari hanno accolto la richiesta di patteggiamento dei dirigenti della Ventures la società italo-israeliana che avrebbe dovuto rilanciare l’Embraco con la produzione di pannelli solari e invece ha «distratto, occultato, dissimulato e dissipato» parte dei soldi destinati alla reindustrializzazione del sito.
Gaetano Di Bari, la figlia Alessandra, il figlio Luigi e il procuratore speciale Carlo Noseda hanno preso 4 anni per bancarotta fraudolenta.
«Una vergogna – ringhia Gianluca – questi ci hanno truffato e se la cavano così. Forse non avremmo dovuto sederci al tavolo quando sono arrivati, ma quando mai un ministro (Carlo Calenda, ndr) viene in fabbrica per fare un accordo? Ci siamo fidati».
Invece dal 2018 al 2019 questi soldi non sono mai finiti nella fabbrica e alla fine, dopo anni, sono rimasti a casa 400 lavoratori la maggior parte dei quali ha patteggiato un risarcimento di 7 mila euro, Gianluca non ha firmato con un altro gruppetto sta continuando la causa civile.
Usliga si sente fregato da tutti, sindacati politici: «Io sono leghista da sempre, ho strappato la mia tessera di fronte a Salvini». Adesso ha ancora la Naspi, fino a gennaio 2024, nel frattempo cerca lavoro.
«Ho fatto 100 colloqui, tramite agenzia interinale, sono formato, ho trent’anni di esperienza, ma quello che capisco è che sopra i quaranta non assumono». Se la cava perché ha casa di proprietà e non ha famiglia: «Certo non faccio vacanze da non so quanti anni». Per ora prende 800 euro al mese e se la cava, ma poi?
Volare via dall’Italia
«Le mie figlie le sono terrorizzate dall’opzione di restare in Italia, una ha fatto l’Università in Olanda, l’altra sogna di andare negli Stati Uniti». Elena Mombelli, 56 anni, come tanti dipendenti Alitalia vive al mare a Fregene, per 27 anni ha lavorato come coordinamento terra per il traffico domestico.
In pratica organizzava orari e destinazioni degli aerei, non un lavoro da poco. «Mi piaceva il lavoro e tutti noi ancora sentiamo una forte appartenenza all’azienda». Nel 2014 arriva Etihad in Alitalia e ci sono 1800 licenziamenti. «Abbiamo fatto causa perché erano stati fatti proprio in maniera vergognosa».
Non tutti hanno fatto causa, l’azienda ha giocato sulla paura di perdere l’occasione di andare via con qualche soldi e molti hanno firmato prendendo 10 mensilità. Elena ed altri no e hanno vinto in molti.
«Io sono stata fortunata sono stata reintegrata dopo il primo grado e 5 anni di processo». In questi 5 anni Elena è stata coperta con un sussidio di disoccupazione del Fondo di trasporto aereo, due anni dalla mobilità e un anno non ha preso niente. Per fortuna il marito, pilota per Alitalia, lavorava.
«Mi hanno reintegrato nel novembre 2019 fino al 15 ottobre 2021 quando è arrivata ITA che ha mandato a casa quasi 4000 persone».
La beffa vera non deriva neanche dall’ennesima cassa integrazione. Il problema è che nel 2020 le arriva una cartella INPS in cui si richiedono indietro i 4 anni di contributi sociali che aveva ricevuto. Circa 100mila euro «è tutto quello che mi hanno dato negli anni, tra l’altro lordo».
Il motivo lo spiega Antonio Amoroso della CUB trasporti: «La riforma Fornero del 2012, tra le altre cose, ha cambiato le modalità per il reintegro di lavoratori che vincono le cause per licenziamento per giusta causa», e dopo il jobs act, continua, ottenere reintegri per giusta causa è quasi impossibile.
«Prima se si veniva reintegrati venivano versate tutte le mensilità, con la Fornero il datore di lavoro versa solo un anno di mensilità, ma è rimasta la parte della vecchia legge che impone al lavoratore in caso di reintegro di restituire il sostegno sociale ricevuto».
Il problema è che con gli stipendi riavuti indietro era possibile, senza no. «L’idea era quella di far durare i processi un anno, ma evidentemente non è così».
Epopea dei percettori di RdC
«L’Italia non può essere una Repubblica fondata sul Reddito di Cittadinanza» sentenziava recentemente la presidente del Consiglio e nel Decreto di oggi una larga parte è destinata alla ridefinizione, verso il basso, del RdC che verrà chiamato “assegno di inclusione”.
«Io ho fatto la domanda nel 2019 – racconta Pasquale D’Amato, Palermo – appena è stato possibile. Facevo il venditore di frutta abusivo, prendevo la frutta al mercato alle 5 del mattino e fino alle 9 di sera la vendevo per strada. Ogni giorno guadagnavo dai 20 ai 25 euro».
Pasquale ha smesso di studiare presto ed è andato subito a lavorare per gli orto frutta da ragazzino, si è fatto anche un po’ di prigione ma assicura: «Dal 2006 sono a posto».
Ma il lavoro oltre a quello lì non ce n’è, tanto che nel 2018 ha subito anche uno sfratto esecutivo, lui la moglie e il figlio piccolo. «Quando ho iniziato a prendere il reddito, insieme ad altri percettori abbiamo fondato un’associazione “Basta volerlo” e ci siamo messi a fare volontariato in città. Puliamo le strade, facciamo lavori nelle scuole, ci autotassiamo per comprare il materiale e paghiamo un’assicurazione. Ci sentivamo di dover restituire alla società quello che ricevevamo».
In questi tre anni nessuno l’ha chiamato per un lavoro, ha fatto tre corsi di formazione come carrellista, inglese per il business e sicurezza sul lavoro. «Questo governo conosce benissimo la situazione in Sicilia, la destra ci governa da che io ricordo. Qui lavoro non c’è, è inutile che mi si dica che sono occupabile».
© Riproduzione riservata