Sono 13 anni che vivo a Milano, che significa che per 13 anni, ogni giorno, ho desiderato una carciofa di Pepèn. «Siamo nel ventunesimo secolo, possibile che non si possa mandare del cibo via fax?» mi lamentavo a voce alta con chiunque, mentre in città aprivano svariate sedi dell’Antico Vinaio di Firenze, ma per mangiare un panino di Pepèn dovevo ancora prendere il treno. Il nome non dirà molto ai più, ma per chi come me è cresciuto a Parma, Pepèn è sinonimo di felicità.

Esiste dal 1953 e da allora produce alcune delle cose più buone che io abbia mai mangiato, non ultima la carciofa, che porta un nome dal suono vagamente salutare, ed è invece una torta unta ripiena di ricotta e parmigiano con un lontano ricordo di carciofi. «Possibile che nel 2024 non ci sia una stampante in 3D in grado di riprodurla nella mia cucina?»

Dietro al bancone del locale originale – che nonostante i decenni, il successo, le file a pranzo, è rimasto inalterato e squisitamente fané – alberga un secchio di maionese giallissima fatta a mano, che viene spalmata con generosità un po’ ovunque. Anche le facce e le mani al lavoro sono rimaste quelle: Pepèn è un affare di famiglia.

Negli anni è capitato più volte che tornassi a Parma con il solo obiettivo di mangiare uno Spaccaballe (il loro storico panino con l’arrosto), e in secondo luogo per visitare la mia famiglia. Non se ne abbia a male mia mamma se ora che Pepèn ha aperto una succursale a Milano i miei weekend all’ovile si diraderanno ulteriormente.

Tassello mancante e dubbi

Il giorno in cui ho scoperto che le mie preghiere erano state ascoltate ho mandato la notizia a tutti i miei conoscenti, corredandola di un messaggio eccessivamente enfatico, di quelli che leggi sui muri di certe case vacanze: “abbi il coraggio di credere nei tuoi sogni”. Contestualmente, dopo più di un decennio che vivo qui, ho anche portato a termine la pratica per prendere la residenza a Milano.

La città è finalmente completa, ha tutto ciò che ho sempre desiderato (meno un mercato immobiliare accessibile, ma in fondo sono una ragazza semplice e mi accontento di un buon panino, o forse ho solo le vene tappate dalla maionese). Pepèn era il tassello mancante perché potessi infine chiamarla casa.

Poi a stretto giro è subentrata l’inevitabile paranoia: e se non fosse buono come l’originale? E se si sputtanano perché non riescono a star dietro a due locali contemporaneamente? Chi preparerà la maionese? La ricetta della carciofa è sufficientemente protetta, stampata su un foglio laminato e conservato in un caveau di massima sicurezza? Manderanno dei membri della famiglia a replicare la perfezione? E soprattutto: è possibile replicare la perfezione?

Già mi vedevo la versione milanese del menù, fighettizzata e privata di alcuni capisaldi ritenuti inaccettabili fuori da Parma. Ero certa che avrebbero fatto a meno del crudo di cavallo, una specialità della mia città che suona giustamente ripugnante per i forestieri, alla stregua tartare di cane.

Nell’attesa dell’apertura – che sapevamo solo sarebbe stata a Porta Venezia, a un certo punto dell’autunno – tra parmigiani ne parlavamo come se si trattasse dell’annessione di Fiume al Regno d’Italia, con la serietà morbosa che di solito si riserva a fatti ben più rilevanti.

Neanche fra di noi eravamo allineati. Mi trovavo anzi piuttosto sola nel mio entusiasmo, mentre i miei amici erano perlopiù inclini a leggere in questa operazione un sintomo della modernità corrotta, delle città sempre più omologate, del capitalismo cattivo e della globalizzazione. Mala tempora currunt, insomma.

La riproducibilità dell’arte

Soprattutto erano tutti sicuri che la bontà di Pepèn fosse circostanziale al luogo, che ci fosse qualcosa nell’aria a Parma, un genius loci di Vicolo Sant’Ambrogio, che rendeva tutto così gustoso e non riproducibile. Ma se c’è una cosa che ho imparato da Walter Benjamin e da quell’unico esame di filosofia estetica che diedi circa centovent’anni fa, è che viviamo nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’arte, e chiunque abbia assaggiato una delle loro tartine sa che di arte stiamo parlando.

E infatti a fine ottobre Pepèn apre in via Malpighi ed è una riproduzione fedelissima della nave madre. I forni dietro al bancone, la vetrina di sottoli e sottaceti, il secchio di maionese. La carciofa ha il sapore giusto, l’impresentabile pesto di cavallo è in menù, c’è persino Stefano Ferrari in trasferta a comporre i panini.

Io però sono incinta, non posso mangiare metà delle cose, e mai come ora ho messo in discussione questa ridicola decisione di diventare madre. Che mondo consegno a questa creatura? Il pianeta non era già abbastanza sovrappopolato? Ma soprattutto, come faccio a stare nove mesi senza prosciutto crudo?

Tuttavia la carciofa risolve i conflitti e le crisi internazionali, ma anche quelle isteriche della sottoscritta, confermando la sua superiorità in quanto alimento commestibile anche da una povera donna gravida come me. Nel dubbio ne mangio due e ordino anche una palla di carne, con mio rammarico senza maionese (mio figlio non è ancora nato e già deve andare in terapia per gestire il senso di colpa che gli farò pesare per questa insopportabile rinuncia alla maio fresca).

Noto con un po’ di disappunto che tra gli sfizi storici mancano invece gli arancini, i più buoni del mondo (sento già i siciliani che mi vengono a cercare con i forconi ardenti, spero abbiano pietà di questa piccola ragazza in stato interessante), ma chissà che il futuro non ci riservi qualche piccola gioia ulteriore. Disse con fare minaccioso alla cassa.


 

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