Mentre da giorni cerco ossessivamente un letto contenitore che non mi faccia vomitare, nel disperato tentativo di aumentare la metratura del bilocale in cui viviamo in due stratificandone la capienza e mettendo tutto sottovuoto, compreso il mio buonumore, esce la notizia che a Milano hanno inaugurato il primo palazzo dedicato al co-living, ovvero alla condivisione tra molti sconosciuti (in questo caso ventisette) degli spazi domestici.

Si trova in zona Dateo – per i non milanesi: una bella zona borghese e piuttosto centrale recentemente benedetta dall’arrivo della nuova metropolitana blu – e comprende 27 stanze singole di varia metratura dal costo mensile che va dai 1196 ai 1419 euro mensili, a seconda del privilegio di un bagno privato o meno.

Di bidet ce ne sono solo due in tutto l’edificio, ma questo succede quando affidi il progetto a un architetto belga. In compenso c’è un giardino con il barbecue e un forno per la pizza, una palestra, una sala tv, una lavanderia, una grande cucina e un parcheggio per le bici.

Mi sembrano comunque tanti soldi per non potersi neanche sciacquare il culo in santa pace, penso mentre visito il sito di Cohabs, l’azienda nata nel 2016 che sta aprendo case per co-abitare in tutto il mondo, ma nel canone mensile, scopro, sono sempre comprese tutte le utenze, l’abbonamento a Netflix, pulizie settimanali, una colazione al mese, corsi e workshop e «soprattutto nuovi amici», leggo dalla presentazione.

Come alle elementari 

Forse sono troppo vecchia o semplicemente troppo poco scandinava, ma l’idea di dover interagire ogni giorno con altre 26 persone (26!) per me varrebbe già una decurtazione del 50 per cento sulla richiesta. Ventisette persone è una classe di scuola, e bene o male ci ricordiamo com’era passare tutte quelle ore con la stessa gente: avevamo, tre o quattro amici, tolleravamo due o tre compagni inoffensivi, ne odiavamo con forza altrettanti, in casi disperati ci innamoravamo di qualcuno solo per pentircene qualche mese dopo, quando l’amore finiva con la stessa repentinità con cui era sbocciato, e i restanti erano ombre passeggere di cui ci saremmo presto dimenticati i cognomi. Poi tornavamo a casa da altri coinquilini che non ci eravamo scelti: i nostri genitori, i fratelli, le sorelle.

Non avevamo alternative, questa era la nostra vita. Potevamo solo sognare il nostro futuro da grandi, ancora ignari che questo avrebbe significato vivere ancora a lungo con altre persone selezionate a caso dal destino, spesso corredate di abitudini moleste e/o disgustose, e che le nostre famiglie avrebbero pagato cifre molto alte per tenerci in camere mal arredate da un ingegnere di nome Giammarco, fortunato erede dell’appartamento della zia defunta e speculatore specializzato in fuorisede disperati.

Con l’arrivo dell’età adulta, che più o meno coincide con il primo F24, è la solitudine che bramiamo. Non potrebbero pagarmi abbastanza per trovare nel mio frigo dei tupperware etichettati da qualcun’altro, per dover aspettare il mio turno per fare la doccia, per guardare un film nel soggiorno comune mentre la coinquilina si sta lasciando con il fidanzato nella stanza accanto. È così che si diventa monogami: serve qualcuno con cui dividere contemporaneamente l’affitto e una confidenza tale per cui i loro capelli nella doccia ci fanno solo moderatamente schifo.

Il valore aggiunto 

Il responsabile di Cohabs a Milano, un uomo di trentatré anni che scommetto che vive da solo e può farsi il bidet ogni volta che lo desidera, ha parlato di valore aggiunto dell’esperienza.

Forse sono io che non capisco, sono una persona arida e non abbastanza danese, dopo cinque anni nello stesso palazzo non conosco neanche uno dei miei vicini, ma dopo varie valutazioni, che hanno compreso l’estetica impeccabile delle camere di Cohabs e la presenza della lavastoviglie in cucina (che non possiedo da quando vivo da sola e bramo più di qualsiasi cosa al mondo), controbilanciate dalla fantomatica esperienza, che mi immagino come un soggiorno senza fine in un ostello della gioventù, in cui almeno una volta al giorno ci si confronta tra estranei su usi e costumi del paese di provenienza di ciascuno, nelle conversazioni più noiose che l’umanità abbia mai conosciuto, sono giunta alla conclusione che preferirei vivere in strada che co-abitare.

Eppure in una città dove le possibilità di vivere dignitosamente senza doversi prostituire si riducono a vista d’occhio, non possiamo permetterci di fare i preziosi. L’inferno sono gli altri? O sono gli appartamenti fatiscenti che Giammarco affitta a peso d’oro pretendendo sei mensilità anticipate? O è la solitudine di una stanza singola a Baranzate? O è il conto in rosso?

Cohabs non è un’iniziativa popolare (e neanche si spaccia come tale), ma un esperimento sociale che ci aiuta a determinare quanto siamo disposti a sacrificare per un po’ di benessere, o parvenza di. La privacy, lo spazio vitale, il bidet. E poi? L’acqua calda, la dignità, la voglia di vivere? I più previdenti di noi ne avranno una scorta, riposta per tempo sottovuoto. Agli altri resterà il valore aggiunto dell’esperienza.

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