«Amputazione traumatica di una o entrambe le mani, una vampata ustionante su tutto il torace e, molto spesso, la cecità. Insopportabile. Ho visto troppo spesso bambini che si risvegliano dall’intervento chirurgico e si ritrovano senza una gamba, o senza un braccio. Hanno momenti di disperazione, poi, incredibilmente, si riprendono. Ma niente è insopportabile, per loro, come svegliarsi nel buio. I pappagalli verdi li trascinano nel buio, per sempre»
Pubblichiamo uno stralcio di “Pappagalli verdi: cronache di un chirurgo di guerra” di Gino Strada, pubblicato da Feltrinelli nel 1999. Una raccolta di memorie relative ai teatri di guerra dove Strada è stato impegnato con i colleghi di Emergency.
Un vecchio afgano con i sandali rotti e infangati, e il turbante con la coda che scendeva fino alla cintura, stava accanto al figlio di sei anni nel pronto soccorso dell’ospedale di Quetta.
Il bambino si chiamava Khalil e aveva il volto e le mani, o quel che ne restava, coperti da abbondanti fasciature. Stava sdraiato, immobile, la camicia annerita dall’esplosione. Qualcuno aveva strappato una manica e ne aveva fatto un laccio, legato stretto sul braccio destro per fermare l’emorragia. «È stato ferito da una mina giocattolo, quelle che i russi tirano sui nostri villaggi» disse Mubarak, l’infermiere che faceva anche da interprete, avvicinandosi con un catino di acqua e una spugna.
«Non ci credo, è solo propaganda», ho pensato, osservando Mubarak che tagliava i vestiti e iniziava a lavare il torace del bambino, sfregando energicamente come se stesse strigliando un cavallo. Non si è neanche mosso, il bambino, non un lamento.
In sala operatoria ho tolto le bende: la mano destra non c’era più, sostituita da un’orrenda poltiglia simile a un cavolfiore bruciacchiato, tre dita della sinistra completamente spappolate.
«Avrà preso in mano una granata», mi sono detto. Sarebbero passati solo tre giorni, prima di ricevere in ospedale un caso analogo, ancora un bambino. All’uscita dalla sala operatoria Mubarak mi mostra un frammento di plastica verde scuro, bruciacchiato dall’esplosione.
«Guarda, questo è un pezzo di mina giocattolo, l’hanno raccolto sul luogo dell’esplosione. I nostri vecchi le chiamano pappagalli verdi… – e si mette a disegnare la forma della mina: dieci centimetri in tutto, due ali con al centro un piccolo cilindro. Sembra una farfalla più che un pappagallo, adesso posso collocare come in un puzzle il pezzo di plastica che ho in mano, è l’estremità dell’ala. – … Vengono giù a migliaia, lanciate dagli elicotteri a bassa quota. Chiedi ad Abdullah, l’autista dell’ospedale, uno dei bambini di suo fratello ne ha raccolta una l’anno scorso, ha perso due dita ed è rimasto cieco. Mine giocattolo, studiate per mutilare bambini. Ho dovuto crederci, anche se ancora oggi ho difficoltà a capire… Tre anni dopo ero in Perù. Quando me ne andai da Ayacucho, dopo mesi passati a organizzare il reparto di chirurgia, un amico peruviano, artista e poeta, mi ha regalato un retablo, una specie di presepe in gesso. Una scena di violenza e di lotta per il diritto alla terra.
Intorno alle figurine di contadini incatenati, trascinati via da militari con il passamontagna, tante spighe di grano, molto alte, dorate. Sopra le spighe stormi di loros, pappagalli verdi col becco adunco e gli occhi rapaci. – Per i contadini di qui – mi disse Nestor spiegandomi il retablo – i pappagalli simboleggiano la violenza dei militari, hanno lo stesso colore delle loro uniformi.
Arrivano, si prendono il raccolto, spesso uccidono, e se ne vanno via. Nestor mi raccontava la misera vita della gente di quella regione andina, le sofferenze e la rassegnazione, e la violenza sistematica. Allora gli ho detto di altri pappagalli verdi, che avevo conosciuto in Afghanistan. Mine antiuomo di fabbricazione russa, modello PFM-i. Gli ho spiegato che le gettano sui villaggi, come fossero volantini pubblicitari che invitano a non perdere lo spettacolo domenicale del circo equestre.
E ho visto i suoi occhi increduli, come erano stati i miei, e le labbra aprirsi un poco in segno di sorpresa.
La forma della mina, con le due ali laterali, serve a farla volteggiare meglio. In altre parole, non cadono a picco quando vengono rilasciate dagli elicotteri, si comportano proprio come i volantini, si sparpagliano qua e là su un territorio molto più vasto.
Mine giocattolo
Sono fatte così per una ragione puramente tecnica – affermano i militari – non è corretto chiamarle mine giocattolo. Ma a me non è mai successo, tra gli sventurati feriti da queste mine che mi è capitato di operare, di trovarne uno adulto. Neanche uno, in più di dieci anni, tutti rigorosamente bambini. La mina non scoppia subito, spesso non si attiva se la si calpesta. Ci vuole un po’ di tempo – funziona, come dicono i manuali, per accumulo successivo di pressione.
Bisogna prenderla, maneggiarla ripetutamente, schiacciarne le ali. Chi la raccoglie, insomma, può portarsela a casa, mostrarla nel cortile agli amici incuriositi, che se la passano di mano in mano, ci giocano. Poi esploderà. E qualcun altro farà la fine di Khalil.
Amputazione traumatica di una o entrambe le mani, una vampata ustionante su tutto il torace e, molto spesso, la cecità. Insopportabile. Ho visto troppo spesso bambini che si risvegliano dall’intervento chirurgico e si ritrovano senza una gamba, o senza un braccio. Hanno momenti di disperazione, poi, incredibilmente, si riprendono. Ma niente è insopportabile, per loro, come svegliarsi nel buio. I pappagalli verdi li trascinano nel buio, per sempre.
Dicevo queste cose a Nestor, seduti nel suo laboratorio pieno di quadri e sculture, e difigurine in gesso da colorare.
Così abbiamo immaginato – sapendo che era tutto maledettamente vero – un ingegnere efficiente e creativo, seduto alla scrivania a fare bozzetti, a disegnare la forma della PFM-i. E poi un chimico, a decidere i dettagli tecnici del meccanismo esplosivo, e infine un generale compiaciuto del progetto, e un politico che lo approva, e operai in un’officina che ne producono a migliaia, ogni giorno.
Non sono fantasmi, purtroppo, sono esseri umani: hanno una faccia come la nostra, una famiglia come l’abbiamo noi, dei figli. E probabilmente li accompagnano a scuola la mattina, li prendono per mano mentre attraversano la strada, ché non traumatica: violenta e improvvisa. vadano nei pericoli, li ammoniscono a non farsi avvicinare da estranei, a non accettare caramelle o giocattoli da sconosciuti… Poi se ne vanno in ufficio, a riprendere diligentemente il proprio lavoro, per essere sicuri che le mine funzionino a dovere, che altri bambini non si accorgano del trucco, che le raccolgano in tanti.
Più bambini mutilati, meglio se anche ciechi, e più il nemico soffre, è terrorizzato, condannato a sfamare quegli infelici per il resto degli anni. Più bambini mutilati e ciechi, più il nemico è sconfitto, punito, umiliato. E tutto ciò avviene dalle nostre parti, nel mondo civile, tra banche e grattacieli. Al confronto anche i loros, verdi pappagalli che infestano le Ande, sembrano meno feroci, verrebbe da dire più umani. Non ho più saputo nulla di Mubarak, da sette anni.
Ho incontrato molti Khalil in giro per il mondo, l’ultimo si chiama Thassim. Non è afgano, è un ragazzo curdo di quindici anni, è cieco e senza mani. Lo guardo mentre cerca, per ora senza successo, di portarsi un cucchiaio alla bocca senza rovesciare la zuppa. È stanco, e un poco frustrato, per oggi non vuole più saperne di fare esercizi.
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