Per il pestaggio avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, Francesco Uccella, il 6 aprile 2020, ci sono altri 29 indagati per i quali la procura, guidata da Pierpaolo Bruni, ha chiesto senza ottenerla la misura cautelare. Quel giorno, in piena pandemia, 283 agenti sono entrati all’interno del reparto Nilo per mettere in atto il più violento e brutale pestaggio mai documentato in un carcere italiano nella storia repubblicana.

Per quei fatti, raccontati da questo giornale anche attraverso la pubblicazione dei video, c’è già un primo processo in corso che vede alla sbarra 103 persone, tra queste l’allora provveditore regionale, Antonio Fullone, oltre a comandanti, dirigenti, agenti penitenziari e medici.

Alcuni sono stati sospesi dall’amministrazione penitenziaria in modo temporaneo. Nei giorni scorsi alcuni sono tornati in servizio, tra questi la regista del depistaggio e uno degli artefici della perquisizione straordinaria. La prima inchiesta giudiziaria, che aveva portato anche all’esecuzione di misure cautelari, non aveva individuato tutti gli autori dell’azione violenta nei confronti dei detenuti, per lo più ristretti per reati predatori e violazione del testo unico sugli stupefacenti.

Chi sono i protagonisti di questa nuova richiesta cautelare, respinta dalla giudice Alessia Stadio?

Le accuse

Gli indagati sono agenti penitenziari in servizio presso il carcere casertano, di altri istituti di pena campani, ma anche appartenenti al gruppo d’intervento che era stato costituito proprio dall’allora provveditore Fullone.

Sono accusati di aver partecipato alle violenze e in particolare di aver sottoposto i detenuti a «percosse, pestaggi, lesioni – attuate con colpi di manganello, calci, schiaffi, pugni e ginocchiate, costrizioni ad inginocchiamento e prostrazione, induzione a permanere in piedi per un tempo prolungato, faccia al muro, ovvero inginocchiati al muro – e connotate da imposizione di condotte umilianti, quali, ad esempio, l’obbligo della rasatura di barba e capelli», si legge nelle carte.

Il lavoro degli inquirenti ha consentito di dare un volto e un nome agli autori delle violenze, che fino ad adesso erano indicati con la dicitura «non identificati», grazie ai video e alle ricostruzioni testimoniali. Tra le ventisette contestazioni c’è anche quella di aver prelevato con la forza, poi sono stati condotti in isolamento, quindici detenuti, tra questi Lamine Hakimi, affetto da disturbi mentali che è finito in una cella dove è rimasto confinato oltre il consentito, senza cure e assistenza, dove è morto per l’assunzione di un mix di farmaci e stupefacenti.

La giudice ripercorre gli episodi di violenza inaudita ai quali sono stati sottoposti i detenuti, alcuni costretti a inginocchiarsi, a umiliarsi davanti agli agenti che rappresentavano lo stato. Ricostruisce anche i falsi, il depistaggio, elencando, rispetto alle condotte relative allo sviamento delle indagini, nomi e cognomi di soggetti già a processo e oggi in servizio, c’è chi opera anche all’interno di istituti di pena campani, come Francesca Acerra, vice comandante nel carcere di Aversa, all’epoca a capo del nucleo investigativo territoriale.

La giudice Stadio, pur ammettendo la gravità indiziaria, ha negato le misure con questa motivazione: «Non si tratta di soggetti dediti ad attività delinquenziali, ma di appartenenti alle forze dell’ordine che in una evenienza tanto brutale quanto eccezionale hanno commesso, e concorso a commettere, i drammatici fatti per cui si procede, peraltro, sotto la direzione ed il comando dei loro superiori».

Improbabile che reiterino il reato, ragiona la giudice, e per rassicurare tutti aggiunge: «Negli ultimi 4 anni non sono state mai denunciate altre condotte analoghe». La procura ha fatto ricorso, ora si attende la decisione del tribunale del riesame.

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