«Se oggi esiste, in Italia, una versione sia pur blanda del reato di tortura è soprattutto merito suo, del suo coraggio e della sua tenacia». Questo il messaggio di cordoglio con cui l’Associazione per il rinnovamento della Sinistra ha salutato Arnaldo Cestaro, morto a 85 anni lo scorso 20 giugno. Cestaro, il 21 luglio 2001, faceva parte del gruppo di 93 persone che quella notte dormiva alla scuola Diaz-Pertini di Genova ed è stato massacrato dalle forze dell’ordine, in quello che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha qualificato come un atto di tortura.

Il 26 giugno ricorre la giornata mondiale a sostegno delle vittime di tortura. L’Italia, pur di fronte a numerose sentenze di condanna della Corte Edu, è stata per anni inadempiente, non avendo una legislazione adeguata a punire il reato di tortura. Non sono bastate battaglie, petizioni e pressioni nei confronti dei governi che si sono succeduti dopo i fatti del G8 di Genova.

La mappa interattiva: dentro la zona rossa di Genova

Cestaro contro Italia

Già nel 2013 la Corte di Strasburgo, con la sentenza Torreggiani, aveva condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Cedu, che vieta la tortura e trattamenti inumani o degradanti, in connessione al fenomeno del sovraffollamento delle carceri

Solo due anni più tardi, lo stato italiano è stato di nuovo condannato per i fatti della Diaz. E fu Cestaro a portare l’Italia davanti alla Corte, che qualificò come atti di tortura i maltrattamenti e le percosse subite dal ricorrente a opera di funzionari di polizia nel corso della perquisizione alla Diaz. La condotta delle forze dell’ordine – scrivono i giudici – ha costituito una violazione chiara della legge, della dignità umana e del rispetto della persona.

L’inadeguatezza della legislazione ha poi impedito alla magistratura di perseguire in modo efficace gli atti di tortura commessi e ha contribuito a un clima di sostanziale impunità per chi ha preso parte alle violenze, continua la Corte. L’Italia era quindi stata chiamata a più riprese a introdurre una nuova fattispecie di reato per prevenire e reprimere chiunque commettesse atti contrari all’articolo 3 della Cedu.

Cosa prevede la legge attuale

Il 14 luglio 2017, con la legge 110, è stato finalmente introdotto nel codice penale italiano il reato di tortura. Un iter parlamentare lungo che ha incontrato non poche pressioni e ha portato a una legge ampiamente modificata, tanto da portare il senatore Luigi Manconi, promotore della legge, ad astenersi il 17 maggio perché considerava il testo approvato «mediocre». 

Poco prima dell’approvazione della legge, l’Italia ha collezionato un'ulteriore condanna a Strasburgo per i fatti della Diaz, con una sentenza che ha messo anche in luce le responsabilità dei vertici della polizia. Proprio i sindacati autonomi di polizia sono sempre stati contrari alla legge e da anni chiedono che venga modificata, perché le fattispecie del reato di tortura e di istigazione alla tortura «sono costruite male nel nostro ordinamento», ha detto il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio, nel marzo del 2023. De Fazio ha sostenuto che lo dimostrerebbero alcune inchieste giudiziarie finite poi nel nulla. Ma è davvero così?

Il reato di tortura e quello di istigazione alla tortura sono disciplinati dagli articoli 613-bis e 613-ter. Il primo punisce con una pena dai 4 ai 10 anni «chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».

Ci sono poi una serie di aggravanti al reato nel caso in cui sia stato commesso da un pubblico ufficiale abusando dei poteri; nel caso in cui siano state commesse lesioni personali comuni, gravi o gravissime; oppure la morte causata dalla tortura.

Il reato di istigazione alla tortura (613 ter) prevede invece una pena da sei mesi a tre anni nei confronti del «pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio» che, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, «istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso».

Le proposte di modifica

Dopo l’avvio della discussione in Commissione giustizia al Senato del disegno di legge del Movimento Cinque stelle per modificare il reato, ad agosto 2023, è arrivata la congiunzione con il testo proposto da Fratelli d’Italia, che propone di abolire il reato di tortura, derubricandolo a mera aggravante. Abolire la legge rischierebbe di «rallentare o far saltare i processi e i procedimenti», hanno denunciato Amnesty International, Antigone e A Buon Diritto, oltre a rischiare di mandare «di far ripiombare il carcere nel sistema opaco che lo caratterizzava fino a pochi anni fa».

Per i promotori della riforma, «l’incertezza applicativa in cui è lasciato l’interprete potrebbe comportare la pericolosa attrazione nella nuova fattispecie penale di tutte le condotte dei soggetti preposti all'applicazione della legge, in particolare del personale delle Forze di polizia che per l’esercizio delle proprie funzioni è autorizzato a ricorrere legittimamente anche a mezzi di coazione fisica».

Inoltre, secondo i meloniani, le pene previste dal reato sono «sproporzionate rispetto ai reati che puniscono nel codice attualmente tali condotte (percosse, lesioni, minaccia eccetera)». Al momento il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha detto lo scorso febbraio che «il governo è al lavoro per modificare il reato di tortura adeguandolo ai requisiti previsti dalla convenzione di New York», precisando che si tratterebbe di aggiustare un problema tecnico. 

Ma per il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, la questione non ha nulla di tecnico, «è solo ed esclusivamente politica», ha scritto sulle pagine del Manifesto, e modificare il reato significherebbe «dare un messaggio di impunità», «rispondere alle richieste dei sindacati autonomi di polizia», «non rispettare le vittime di tortura» e «mettere a rischio processi come quello per i pestaggi e le mattanze di Santa Maria Capua Vetere o di Reggio Emilia». 

I processi per imputazioni di tortura

La prima condanna in Italia per tortura risale al 15.01.2021, ricorda il XX rapporto di Antigone. È stata emessa dal tribunale di Ferrara nei confronti di un agente della penitenziaria accusato di aver appunto torturato un detenuto nel carcere della città. Ma tanti altri processi ancora in corso non sarebbero possibili senza l’attuale legge. Tra questi c’è quello riguardante i fatti avvenuti a Santa Maria Capua Vetere, dove nell’istituto penitenziario Francesco Uccella il 6 aprile 2020, dopo una protesta dei detenuti preoccupati per la diffusione della notizia di un detenuto positivo al Covid-19, alcuni agenti penitenziari hanno colpito ripetutamente i detenuti. Domani fu il primo giornale a pubblicare i video di quella mattanza. Il gup ha rinviato a giudizio di 105 persone. Due agenti sono stati prosciolti per non aver commesso il fatto, per gli altri è in corso il dibattimento.

A Reggio Emilia sono iniziati il 25 giugno gli interrogatori nei confronti di dieci agenti accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso nelle relazioni. I reati contestati fanno riferimento ai fatti accaduti nell’aprile del 2023 all’interno del carcere di Reggio Emilia nei confronti di un detenuto tunisino di 44 anni. Domani aveva pubblicato il video del pestaggio subíto che mostra il detenuto bendato, preso a pugni, calpestato con le scarpe d’ordinanza e trattenuto per alcuni minuti dagli agenti. Tutti gli imputati hanno richiesto il rito abbreviato. A Modena il giudice si è riservato e la decisione sull’opposizione all’archiviazione arriverà nei prossimi mesi del caso che vede indagati 120 agenti della polizia penitenziaria accusati di tortura dopo la protesta nel carcere di Sant’Anna nel marzo del 2020. Una protesta in cui avevano perso la vita nove detenuti.

Codici identificativi

Per garantire l’identificazione degli agenti che compiono violenze e pestaggi la società civile chiede da anni che siano riconoscibili attraverso codici identificativi alfanumerici scritti sulle divise e sui caschi. A riaccendere il dibattito nei mesi scorsi, le accuse di manganellate da parte della polizia sui cortei degli studenti che manifestavano a sostegno della Palestina a Pisa e Firenze. 

La richiesta di introdurre codici identificativi è arrivata anche da organismi internazionali che hanno più volte dato indicazioni agli stati di rendere riconoscibili e identificabili gli agenti delle forze dell’ordine. Le prime proposte presentate alla Camera risalgono al 2001, ma anche in questa legislatura ci sono diverse proposte di legge che sono state presentate dalle opposizioni. 

Quelle presentate dal segretario di Più Europa, Riccardo Magi, e da Matteo Orfini del Pd sono state assegnate alla Commissione Affari costituzionali. Chiedono che venga introdotto un codice alfanumerico sui caschi e sulle divise visibile da almeno 15 metri, per rendere riconoscibile l’agente in servizio. Ma anche in questo caso i sindacati autonomi di polizia, supportati dalla destra, sono contrari.

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