Il nuovo commissario, nominato a inizio agosto, ha messo in campo misure di biosicurezza e contenimento dei cinghiali, ritenute però tardive. La crisi, spostatasi anche sui maiali, sta avendo un impatto sul settore della produzione di carne suina. E potrebbe portare a nuove riflessioni
La crisi per l’epidemia di peste suina africana non si è ancora conclusa. Cominciata il 7 gennaio 2022 con il ritrovamento della carcassa di un cinghiale infetto a Ovada, in Piemonte, l’epidemia prosegue da quasi tre anni, con conseguenze ingenti sulla produzione di prodotti alimentari derivanti da carne suina, in particolare nel nord Italia.
«La peste suina africana (Psa) – si legge sul sito del ministero della Salute – è una malattia virale, altamente contagiosa e spesso letale, che colpisce suini e cinghiali. Non è trasmissibile all’uomo, ma è causa di ingenti perdite economiche nel comparto suinicolo, con gravi ripercussioni anche sul commercio comunitario ed internazionale di animali vivi e dei loro prodotti».
Il principale vettore della malattia è la fauna selvatica, ovvero i cinghiali. Dopo il ritrovamento della carcassa infetta a Ovada nel 2022, la zona di trasmissione si è piano piano allargata, andando a coprire prima un’area compresa tra il basso Piemonte e la Liguria e spostandosi poi anche in Lombardia. Alcuni focolai sono stati segnalati inoltre nel Lazio, in Calabria, in Campania, in Emilia-Romagna e in Toscana, per un totale di 24 in tutta Italia. Il più importante è quello che interessa le province di Genova, Parma, Vercelli e Lodi.
vari commissari
Per contrastare l’epidemia è stato nominato a febbraio 2022 un commissario straordinario, che è già stato sostituito due volte. Ad agosto di quest’anno è stato infine nominato il dottor Giovanni Filippini, che ha messo in piedi misure di biosicurezza – che comprendono procedure di controllo degli allevamenti – e contenimento della fauna selvatica, che vengono considerate più adatte rispetto alle precedenti da allevatori e altri enti interessati alla questione.
«Le misure attuali stanno andando nella giusta direzione – dice Alberto Cavagnini, allevatore del bresciano –. È un percorso difficile con ordinanze molto restrittive per il settore che però stanno funzionando».
Il problema finora è stato il contenimento della fauna selvatica, portato avanti nel modo sbagliato secondo Damiano di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia: «Per due anni siamo andati avanti a dire di sparare ai cinghiali, che sicuramente sono da contenere, ma va fatto prima. Non è l’epidemia il momento giusto, perché il cinghiale quando viene cacciato si spaventa, scappa e trasmette epidemia». Sia Cavagnini sia Di Simine sono concordi nel dire che la prima cosa che andava fatta era creare una zona di confinamento dei cinghiali stessi, in modo che la malattia facesse il suo corso e rimanesse limitata a un’area definita.
Dai cinghiali ai maiali
Il problema è, inoltre, che il virus non si è diffuso solo tra i cinghiali ma è entrato anche negli allevamenti di maiali. In alcuni casi potrebbe essere stata anche colpa degli allevatori stessi, per una non sufficiente attenzione nel cambiare per esempio gli stivali dopo essere usciti dall’allevamento, fuori dal quale potrebbero avere anche soltanto calpestato della terra battuta da un cinghiale infetto.
Il risultato è stato l’ordine di abbattimento, al momento, dei suini di 28 allevamenti e un impatto anche sul commercio degli allevamenti che si trovano nelle aree di quelli in cui sono state registrate delle positività al virus.
Ottantamila sono i maiali abbattuti finora e, secondo Cavagnini, il 15 per cento della produzione del prosciutto di Parma e del San Daniele è stata compromessa. A inizio settembre, Coldiretti stimava in 500 milioni di euro i danni economici che hanno interessato il settore attraverso la perdita di produzione e il blocco delle esportazioni verso mercati internazionali chiave.
Inoltre, c’è una problematica che si potrebbe definire d’immagine: «In Belgio, all’insorgenza di alcuni casi anni fa, sono state attuate da subito azioni di contenimento con recinzioni. Il paese è così uscito dall’emergenza dopo tre anni e si è riaccreditato dopo tre anni» spiega Cavagnini, sottolineando come in Italia ancora oggi stiamo ancora cercando di limitare il problema, che non sembra di essere di veloce risoluzione: «siamo in descalation, per altri tre/cinque anni il nostro settore dovrà affrontare questa problematica».
Le richieste di Coldiretti, in questo momento, sono: il risarcimento dei danni subiti dalle scrofaie e dagli allevatori; il monitoraggio dei prezzi dei suini pagati agli allevatori per evitare le speculazioni; l’interruzione temporanea del pagamento di mutui e contributi per le aziende colpite. Come prevenzione invece viene ritenuto fondamentale il contenimento della fauna selvatica.
Al momento i casi sono in diminuzione, dice Di Simine: «Da due settimane non si trovano carcasse infette e ci sono meno casi negli allevamenti, però anche l’anno scorso in questo periodo era stata registrata una diminuzione dei casi. Il nuovo commissario sta facendo un buon lavoro, però in ritardo».
Nuove riflessioni
Quando l’epidemia sarà finalmente estinta servirà continuare a mettere in campo l’azione di prevenzione e di contenimento della fauna selvatica attuale, ma forse quest’emergenza potrebbe portare anche a nuove riflessioni sul settore della produzione di carne suina in Italia.
Associazioni ambientaliste come Legambiente stanno portando avanti proprio questo tipo di ragionamento: «Ha senso continuare ad avere una situazione così folle con tanti animali in così poco spazio? – spiega Di Simine – Nelle sole province di Cremona, Mantova, Brescia, Lodi e della bassa bergamasca si concentrano più o meno 4 milioni e mezzo di maiali in allevamento. Sono numeri che richiedono di essere ripensati, con allevamenti magari più in equilibrio con il territorio, per esempio che permettano di avere un’area che abbia la possibilità di produrre i foraggi necessari, che ora vengono importati dalle altre regioni».
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