Poco meno della metà della popolazione adulta residente in Italia è “low performer” negli ultimi dati del rapporto Ocse. Nelle regioni del sud la quota raggiunge il 60,4 per cento
Mentre i dati riportati dall’indagine Piaac dell’Ocse sulle competenze cognitive degli adulti indicano l’Italia come fanalino di coda rispetto agli altri 31 paesi europei presi in considerazione, nella penisola si verifica una spaccatura tra nord e sud. Poco meno della metà della popolazione adulta residente in Italia è “low performer”, ha cioè un basso livello di competenze. Ma nelle regioni del sud la quota raggiunge il 60,4 per cento.
Dall’indagine emerge come la povertà educativa sia accentuata soprattutto nelle persone adulte, un dato che racconta anche dello stato di salute dei contesti lavorativi: nel centro e nel sud le imprese registrano infatti un più basso livello di innovatività.
«Le imprese meno innovative sono anche quelle che fanno meno formazione – afferma Orazio Giancola, professore associato del Dipartimento di Scienze sociali ed economiche dell’università Sapienza di Roma –. Si crea una trappola di lavoro povero da un punto di vista economico, ma anche cognitivo. Succede che si hanno poche competenze perché si esce più deboli da scuola, poi nel lavoro non si fa formazione, né manutenzione delle competenze, e questo crea un meccanismo che si autoalimenta nel tempo e nello spazio».
Lo scenario delineato dall’indagine Piaac dell’Ocse migliora guardando alle fasce più giovani: le persone di età compresa tra i 16 e i 24 anni raggiungono il punteggio più alto rispetto alle altre fasce d’età in termini di competenze. I giovani residenti nel sud Italia, però, ottengono ancora un punteggio inferiore rispetto ai coetanei di altre regioni.
Le cause
Il contesto familiare di provenienza gioca un ruolo importante nel determinare le competenze di una persona. Stando ai dati, i bassi livelli di istruzione e di competenza dei figli interessano le famiglie culturalmente svantaggiate. Gli italiani con almeno un genitore in possesso di istruzione terziaria, infatti, ottengono risultati migliori rispetto ai coetanei i cui genitori hanno un’istruzione secondaria superiore: avere un genitore con un titolo di studio o non averlo, in termini di competenze, fa un’enorme differenza. Questi fattori innescano un meccanismo che si autoalimenta, e si tramanda, «perché un adulto educativamente povero sarà a sua volta un genitore povero dal punto di vista educativo», aggiunge Giancola.
Le disuguaglianze emergono soprattutto al momento della scelta del liceo, o della scuola tecnica o professionale. «Quasi il 90 per cento dei figli delle classi sociali con un background elevato tendono a frequentare il liceo – aggiunge Giancola –. Mentre le classi sociali inferiori prediligono le scuole professionali, per un discorso relativo ai costi e benefici. È in questa fase che esplodono le disuguaglianze».
A fare la differenza è anche la disponibilità di servizi culturali e scolastici presenti sul territorio. «Il numero di biblioteche per abitanti nel sud è tendenzialmente molto più basso, e lo stesso vale per i teatri e i cinema – aggiunge il professore –. Anche le pratiche e i consumi culturali dipendono dal background familiare, e la mancanza di questi servizi si combina con un “effetto scia”: se il livello di competenze degli individui è basso, quello del territorio è altrettanto basso. Questo porta a uno sprofondamento di tutto il tessuto culturale e sociale».
I punti luce
Tra i progetti per contrastare la povertà educativa, c’è dal 2014 il progetto DOTi (Diritti e opportunità per tutte e tutti) di Save The Children, sostenuto dall’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, che supporta ragazzi e ragazze in condizioni di vulnerabilità, e che rischiano l’esclusione sociale.
Per farlo, nei contesti svantaggiati di 20 città italiane sono stati aperti i “punti luce”, centri socioeducativi attivi dove si promuovono programmi che intervengono sul singolo, ma anche sulle comunità educanti di riferimento. Qui vengono offerte attività culturali gratuite di qualità, come corsi di musica, sport, robotica, ma anche di accompagnamento allo studio.
«È in qualche modo un intervento di giustizia sociale riparativa – racconta Melissa Bodo, responsabile dell’area povertà educativa di Save the Children –. In contesti familiari fragili da un punto di vista socioeconomico spesso vengono lesi i diritti all’accesso a un’istruzione di qualità. Questo si traduce nell’impossibilità di avere libri scolastici all’inizio dell’anno, nel non poter fare sport con continuità o non poter accedere a corsi, o altre attività».
Attraverso le doti educative il progetto attiva dei processi generativi nella comunità, coinvolgendo attori presenti sul territorio che apparentemente non sono all’interno del circuito dell’educazione formale o informale, ma che di fatto concorrono a lavorare in ottica educativa.
La responsabile racconta la storia di Sara (nome di fantasia), una ragazza del quartiere Ponte di Nona di Roma, che grazie al progetto ha scoperto una passione per il judo, passione che le ha dato la motivazione per continuare gli studi. «Sara oggi sta decidendo cosa fare all’università – aggiunge Bodi –. Non è una cosa scontata, provenendo da un contesto come il suo. Sara oggi frequenta anche un corso per diventare insegnante di judo, e il suo sogno è che un giorno possa farlo nel suo quartiere».
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