La Puskás Akadémia è l’avversario ungherese della Fiorentina negli spareggi di Conference League, l’ultimo gradino prima della formazione dei gironi, con la squadra viola che riparte da qui: dopo due finali consecutive perse e una grande voglia di riscatto.

Quello che, però, a Firenze non sanno è che in Europa, e anche in Ungheria, molti tifano per la squadra di Palladino, sperando che possa eliminare la creatura di Viktor Orbán, primo ministro magiaro.

La Puskás Akadémia ha superato il secondo turno di qualificazione battendo a tavolino gli ucraini del Dnipro-1, che hanno dichiarato bancarotta prima di giocare i match di andata e ritorno, e gli armeni dell’Ararat-Armenia, vincendo fuori casa 1-0 e pareggiando in casa 3-3. L’ultimo ostacolo per accedere ai gironi è, appunto, la Fiorentina, una squadra decisamente superiore a quella ungherese.

L’acredine, eufemismo, nei confronti dei gialloneri è presto spiegata. Nata nel 2005 come squadra di puro settore giovanile a Felcsút, paese natale di Orbán, la Puskás Akadémia – oggi prima in classifica nel massimo campionato ungherese, Nemzeti Bajnokság I – ha preso presto il posto della squadra locale e dal 2017 è stabilmente in prima divisione, dopo che il primo ministro magiaro è riuscito a dirottare circa 200 milioni di euro, attraverso un programma di rilancio del calcio nazionale chiamato Tao (társasági adó, che tradotto letteralmente vuol dire imposta sulle società), verso la propria creatura. Costruendo uno stadio da 3.800 posti in una città di nemmeno 2mila abitanti, impadronendosi dell’eredità di Ferenc Puskás, al quale è intitolato l’impianto, la Pancho Arena, creando un campionato nel quale molti club sono di proprietà dei suoi fiduciari e comprando più giocatori stranieri possibile per rendere competitiva la Puskás Akadémia, la quale, invece, avrebbe dovuto produrre in proprio calciatori ungheresi di talento.

Il presidente calciatore

Viktor Orbán ha un passato da calciatore, giocando, tra gli altri, per il settore giovanile del Videoton, diventato poi Fehervar, e a sentire uno dei suoi vecchi allenatori era «veloce con la palla» e non solo vista la sua longeva carriera politica, senza mai nascondere la sua grande passione per il calcio, sul quale ha investito molto, giocando fino a tarda età: si narra che una riunione di governo fu rimandata perché era impegnato nel ritiro primaverile con il Felcsút FC; secondo Márton Kristóf Tompos, leader di Momentum, partito d’opposizione ungherese, il football è il progetto preferito da Orbán, utilizzato come strumento per influenzare gli alleati, la popolazione e uomini d’affari a lui vicini che comprano club nei Paesi confinanti dove sono presenti minoranze ungheresi.

Il programma Tao, nato nel 2011, permetteva alle aziende di dedurre le donazioni fatte ai club di determinati sport, con il calcio a farla da padrone. Fino a oggi sono stati costruiti più di 20 stadi, oltre 1.000 campi da calcio sono stati ristrutturati o rifatti da zero e quando l’Ungheria gioca in casa c’è sempre il tutto esaurito, con 60mila spettatori anche per le amichevoli. Un investimento di 923 miliardi di fiorini ungheresi, 36,3 dei quali destinati alla Puskás Akadémia, il secondo club che ha ricevuto più finanziamenti grazie al programma dedicato è stato il Mezokovesd Zsory, con 522 milioni di fiorini ungheresi, un gap che dovrebbe far riflettere; ma in Ungheria, quella che l’Unione europea ha definito «regime ibrido di autocrazia elettorale», accusando Orbán di mettere in atto «sforzi deliberati e sistematici per minare i valori europei», nessuno fa domande.

Cifre che Orbán avrebbe voluto tenere nascoste e di fronte all’evidenza, in un’intervista a Nemzeti Sport, quotidiano sportivo ungherese, ha dichiarato: «Il Tao è una storia di successo. Non solo ha portato più risorse allo sport e ha reso più facile il funzionamento delle associazioni, ma, cosa più importante, è stata stabilita una relazione tra aziende e organizzazioni sportive. Fino all’introduzione di questo programma, il mondo degli imprenditori e dello sport non avevano alcun rapporto. Non credo che sia giusto pentirsi di avere speso soldi per i campi sportivi o per far giocare i bambini».

Il marchio Puskás 

L’editore di Nemzeti Sport è György Szöllősi, già direttore della comunicazione della Puskás Akadémia e uomo di Orbán, ma c’è di più. Quando fu fondata l’Akadémia c’era da trovargli un nome e fu scelto quello del giocatore che più di ogni altro ha rappresentato il calcio ungherese nel mondo: Ferenc Puskás (Pancho era il suo soprannome spagnolo). Viktor Orbán andò a trovare il fuoriclasse in ospedale, ma le condizioni cliniche gli impedirono di incontrarlo. Fu la moglie ad agire per conto del marito, che sarebbe morto di lì a poco, ad approvare l’accordo di denominazione in un contratto: «Puskás avrebbe sicuramente amato ciò che sta accadendo a Felcsút».

Secondo fonti ungheresi quel contratto conteneva molto di più: il marchio Puskás fu, intatti, consegnato a un giornalista sportivo amico di Orbán, György Szöllősi (già, sempre lui!), il quale promise un cospicuo ritorno annuale per la famiglia e una quota per sé, circa il 45% dei ricavi. E per ultimo, tutti i cimeli – medaglie, maglie, corrispondenza, ecc. – del campione ungherese furono trasferiti in una piccola città nella quale non aveva mai messo piede. Ovviamente i tifosi della Honved sono i nemici giurati di quelli della Puskás Akadémia, visto che questa, grazie a Orbán e Szöllősi, si è impadronita dell’eredità del suo immortale campione.

Gli ultrà del governo

A proposito di tifo, tra i supporter della nazionale ungherese c’è anche la Carpathian Brigade, composta da ultrà dei vari club magiari, riconoscibile sugli spalti per la sua maglia nera.

Il loro ripetuto comportamento discriminatorio ha costretto la federcalcio ungherese a pagare diverse multe e la squadra guidata dall’italiano Marco Rossi a giocare alcune partite a porte chiuse, divieto aggirato riempiendo lo stadio di bambini che dovevano essere accompagnati dagli adulti.

Nella Carpathian Brigade ci sono elementi che si occupano di salvare animali maltrattati, mentre altri hanno compiti più "istituzionali”, tipo: farsi trovare nel corridoio dell’Ufficio del referendum nazionale per impedire a un parlamentare del Partito socialista di registrare una petizione referendaria; o malmenare gli attivisti ambientalisti che protestavano contro l’abbattimento degli alberi nel parco cittadino di Budapest. Senza contare le rivendicazioni dei territori persi più di un secolo fa che componevano la Grande Ungheria.

Un Paese fondato sul calcio, il nazionalismo e l’avversione per i diritti Lgbtq+, della quale ha fatto una bandiera al contrario. Tanto che i giocatori ungheresi che si sono affermati all’estero sono stati più volte ripresi per i loro comportamenti “democratici”, gli stessi che Orbán non tollera.

Ed è chiaro che la rinascita del calcio magiaro sia dovuta soprattutto ai miliardi che sono stati iniettati negli ultimi quindici anni in questo sport, cosa che, strano a dirsi, non è piaciuta nemmeno a una parte cospicua della popolazione.

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