- Non sappiamo se quell’immagine che ritrae Giuseppe Graviano, Silvio Berlusconi e il generale Delfino esista davvero, sappiamo però che sul lago d'Orta, con o senza quella foto, con o senza Berlusconi, la mafia siciliana si è giocata il suo futuro.
- In una pagina della sentenza del processo sulla trattativa si fa cenno «ad una pista che portava al generale Delfino come possibile mandante e organizzatore a livello superiore degli attentati mafiosi commessi nel territorio nazionale».
- I legami fra Delfino e l’uomo che ha servito Totò Riina su un piatto d’argento. Il gelataio Baiardo sapeva dell’arresto di Balduccio Di Maggio almeno una settimana prima di quando – ufficialmente – è stato preso.
In un angolo d'Italia lontano da Palermo è accaduto qualcosa che può ribaltare la scena intorno alla cattura di Totò Riina, che poi è il principio di ogni mistero. Perché è da quel momento che s'incastra tutto: mafia, stato, stragi, depistaggi, patti.
Oggi possiamo avere una visione meno incompleta sulle uccisioni di Falcone, di Borsellino, sulle bombe di Firenze. Possiamo seguire tracce che conducono a personaggi trascurati nell'immediatezza dei fatti, protagonisti scambiati quasi per comparse. Uno è il generale di divisione dei carabinieri Francesco Delfino, finito dentro un’indagine sugli attentati in Continente del 1993. In un angolo d'Italia, sul lago d'Orta, dopo trent’anni si nascondono ancora molti segreti.
Un covo a cielo aperto
Sarà fatalità ma abitavano tutti lì, fra il 1992 e il 1993. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano latitanti, il loro amico gelataio Salvatore Baiardo che li ospitava ad Omegna “con altre persone”, abitava lì il generale Francesco Delfino che aveva una villa a Meina, Balduccio Di Maggio l'hanno preso a Borgomanero che è a un passo da Omegna e da Meina e da lì ha servito su un piatto d'argento la testa di Totò Riina. Tutti che bivaccavano in una striscia di terra in provincia di Verbano-Cusio-Ossola, cento chilometri da Milano e centocinquanta da Torino. Un grande covo a cielo aperto.
Non sappiamo se quella foto che ritrae Giuseppe Graviano, Silvio Berlusconi e il generale Delfino sul lago d'Orta esista davvero (Massimo Giletti dice di averla vista nelle mani di Salvatore Baiardo, lui nega pubblicamente ma non privatamente nei colloqui telefonici fra i due intercettati dai magistrati di Firenze), non sappiamo se è una foto reale o ritoccata con truffalderia dal gelataio prestigiatore. Sappiamo però che sul lago d'Orta, con senza quella foto, con o senza Berlusconi, la mafia siciliana si è giocata il suo futuro.
La fortunatissima congiuntura
Per capirlo bisogna tornare ai primi anni '90, bisogna tornare a quella che abbiamo sempre definito "la miracolosa cattura” del capo dei capi di Cosa Nostra. Miracolosa per come ce l'hanno raccontata, spacciata come “la più clamorosa operazione antimafia del secolo”, in realtà è sembrata l'esito di una concomitanza di circostanze (la parola trattativa a molti non piace), una fortunatissima congiuntura.
Per lungo tempo al centro di un caso aggrovigliato ci sono stati il generale del Ros Mario Mori e il capitano Ultimo alias Sergio De Caprio, che qualche grosso pasticcio l'hanno combinato non perquisendo il covo - processati e assolti da ogni accusa - dove viveva Totò Riina con moglie e quattro figli. Ma, forse, così al centro non lo erano in quanto attore principale dell'affaire è stato un altro generale. Proprio Delfino, proprio quello della foto che Baiardo avrebbe mostrato a Massimo Giletti.
La cronaca degli avvenimenti. Totò Riina è stato preso intorno alle 8 del mattino del 15 gennaio 1993 sulla circonvallazione di Palermo, due ore dopo sbarca in Sicilia il nuovo procuratore capo Gian Carlo Caselli.
L’arresto “casuale” di Balduccio
La versione ufficiale che offrono gli inquirenti sull'arresto del boss è fin da subito contorta. Salta fuori un nome: Balduccio Di Maggio. E' l'ex autista di Riina, odia il suo compaesano di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca, fa il latitante in provincia di Novara, a Borgomanero, una manciata di chilometri dalla casa di Baiardo dove hanno trovato riparo i Graviano. I carabinieri informano che è stato arrestato “casualmente” la sera dell'8 gennaio del 1993, in un'officina dove cercavano droga. Ma droga non ce n'è, trovano solo lui. Addosso ha una pistola senza caricatore. Lo portano al comando di Novara e Balduccio dice: «Voglio parlare con l'ufficiale più alto in grado in Piemonte». Chi è? E' il comandante della Legione, il generale Francesco Delfino. I due si erano conosciuti qualche anno prima, quando Delfino era il vicecomandante dell'Arma in Sicilia. Già allora erano circolate voci su una perquisizione della villa di Balduccio che era diventata una mezza perquisizione, voci.
Riprendiamo dalla sera dell'8 gennaio 1993. Nella caserma di Novara arriva il generale Delfino, ha intorno un colonnello, due tenenti colonnelli, un maggiore, un capitano, un tenente, due marescialli, tre brigadieri, un appuntato, un carabiniere semplice. E davanti a tutti loro, per Balduccio perfetti sconosciuti tranne Delfino (che in quanto generale non aveva qualifica di polizia giudiziaria e non avrebbe mai potuto partecipare all'interrogatorio), lui comincia a parlare di Totò Riina, un boss ricercato dal 1969, l'uomo che ha seminato terrore in Italia.
Fiction o realtà?
Il verbale si apre così: «A richiesta dell'interessato che ha voluto riferire ai sottoscritti urgentemente notizie che gli sono venute alla mente..». E poi Di maggio fa i nomi dei favoreggiatori di Totò Riina. Preso con una pistola scarica, d'improvviso spalanca la porta per la cattura del capo dei capi. Sembra una fiction.
Viene avvertito Caselli che da lì a qualche giorno si insedierà a Palermo, il magistrato affida le indagini al generale Mori che le seguirà con “distrazioni” sensazionali. Da quel momento nessuno sentirà più parlare del generale Delfino per la cattura di Totò Riina. Mai una volta, neanche per sbaglio. Delfino non è presente nemmeno a Palermo, alla conferenza stampa allestita in pompa magna alla Legione di piazza Indipendenza. Ci sono gli ufficiali piemontesi ma lui no. Scompare per sempre.
Un passo indietro. E' l'agosto del 1992, subito dopo l'attentato che fa saltare in aria Paolo Borsellino. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli incontra il generale Delfino che annuncia: «Stia tranquillo, glielo prendiamo noi Totò Riina, glielo prendiamo prima di Natale». Il generale già sapeva.
Baiardo, un indovino seriale
Un altro passo indietro e attenzione alle date. Ufficialmente Balduccio Di Maggio viene arrestato l'8 gennaio 1993 ma, negli ultimi giorni del dicembre del 1992, «sicuramente prima di Capodanno», i fratelli Graviano sono già a conoscenza che Balduccio è in mano ai carabinieri. Lo testimonia lo stesso Giuseppe Graviano a Reggio Calabria il 21 gennaio 2020, al processo contro la 'Ndrangheta stragista. Una dichiarazione lontana dai rumori di questi giorni. Giuseppe Graviano parla in aula della sua latitanza ad Omegna a casa di Baiardo, confessa che era “favolosamente protetto”, ricorda di una nottata passata a giocare a poker con lo stesso Baiardo e con suo fratello Filippo. Verso le 7 del mattino Baiardo esce da casa e cerca un bar per comparare cornetti caldi, poi torna e dice ai Graviano: «Guardate che hanno arrestato Balduccio Di Maggio».
Salvatore Baiardo, a fine dicembre del 1992, come poteva sapere dell'arresto di Balduccio Di Maggio se - stando alle carte dei carabinieri - il fermo è datato almeno otto o nove giorni dopo? Graviano a Reggio svela un altro dettaglio: dice che è stato lui a trovare un rifugio a Borgomanero a Di Maggio per garantirgli sicurezza da Giovanni Brusca che voleva ucciderlo. Poi a Balduccio «è venuto urgentemente a mente» Totò Riina.
Alla prima preveggenza di Baiardo, qualche mese fa è seguita quella sull'arresto di Matteo Messina Denaro in diretta nel talk show di Giletti. Un indovino seriale o qualcos'altro? Per anni hanno appiccicato addosso al vecchio Bernardo Provenzano la fama di “sbirro”, sospettato di avere fatto la soffiata per intrappolare Totò Riina. La trama che si sviluppa sulle sponde del lago d'Orta porta altrove.
E in mezzo c'è Delfino, a fine carriera ingloriosamente degradato a soldato semplice e per un paio di decenni immerso in tanti intrighi - coinvolto e assolto per avere sviato le indagini sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia, condannato per avere intascato denaro per il sequestro dell'imprenditore tessile Giuseppe Soffiantini, un passaggio nel servizio segreto militare e unico agente italiano chiamato a Londra nel 1982 quando sotto il Ponte dei Frati Neri ritrovarono il cadavere del banchiere Roberto Calvi, accuse di contiguità con i boss calabresi – che sarebbe anche lui nella famigerata foto che c'è e non c'è.
Un ufficiale pericoloso
È un quadro che capovolge la vista sul 1992 e sul 1993. Con qualche riga, a pagina 2214 della sentenza sulla trattativa stato-mafia, che accende un altro grande fuoco: «Secondo quanto emerso in questo processo, all’indomani delle stragi in Continente, l’allora capitano Giraudo (Massimo Giraudo, un ufficiale dei servizi, ndr) fu convocato dal generale Antonio Subranni (ex comandante del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, ndr) nel suo ufficio e informato che il Ros stava lavorando ad una pista che portava al generale Delfino come possibile mandante e organizzatore a livello superiore degli attentati mafiosi commessi nel territorio nazionale, additandolo come ufficiale dell'Arma particolarmente pericoloso».
Cos'è e cosa è mai stata quest'indagine? Che fine ha fatto? Dove è sepolta? Il generale Delfino è morto nel 2014 in una casa di cura davanti al mare di Santa Marinella.
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