La sua famiglia è ancora in Afghanistan. Lei è scappata dai talebani, che controllano anche i social di chi fugge. Ora grazie alla rete che accoglie gli studiosi in cerca di libertà ha ottenuto un dottorato all’università di Roma
«Immagina che hai 25 anni e da un giorno all’altro ti viene detto: in quanto donna non puoi più leggere, studiare, lavorare; se vuoi uscire per strada, devi sposarti; puoi solo stare in casa e fare figli. E, se ti opponi, per te c’è la prigione».
Con queste parole e gli occhi brillanti Jamila si presenta e racconta del suo Paese, l’Afghanistan, mentre mangiamo un pezzo di pizza nel bar della facoltà Studi orientali alla Sapienza di Roma. Il nome Jamila è di fantasia perché i Talebani controllano in rete le attività delle donne che si sono ribellate e adesso vivono all’estero, e minacciano ripercussioni sulle loro famiglie ancora a Kabul.
«Volevo di più»
Quando cade Kabul nell’agosto del 2021, l’Afghanistan torna in mano ai Talebani che chiudono scuole, università, accademie e negano alle donne libertà e diritti. In quel tempo Jamila studia letteratura all’università: «Vengo da una famiglia istruita, ma anche molto tradizionale, dove le donne possono solo diventare insegnanti. Io volevo di più».
Jamila voleva partecipare alla vita politica del Paese, studiare, viaggiare. C’è una grande prigione dove finiscono le donne che come lei si oppongono al modello voluto dai Talebani: «Per loro noi non siamo essere umani, ma solo macchine per la riproduzione». Molte donne ora sono a casa, inattive, non lavorano: sono cadute in depressione. Dopo il ritorno dei Talebani, Jamila resta in casa e smette di mangiare. Inizia a prendere pillole per l’ansia: «Non mi sentivo più una persona. Dovevo scappare da Kabul. È in quel momento che entro in contatto con Mara Matta».
«Nessuno si salva da solo», questo è lo spirito con cui Mara Matta insegna Global Humanities and Transnational Cultures alla Sapienza di Roma e fa la delegata della rete Sar (Scholars at Risk) che accoglie studiosi in fuga da zone di conflitto e di guerra: «I muri di carta della burocrazia e i muri di gomma del calcolo politico sono peggio dei muri reali. Se vogliamo tirar fuori queste studentesse dalla dittatura dei Talebani, dobbiamo creare corridoi informali».
Comincia così a raccontare la sua storia che si intreccia a quella di Jamila: «Durante l’operazione Afghanistan, noi di Sar non dormivamo. Ero sempre su WhatsApp con le studentesse afghane». Nel 2021 le donne lanciavano i figli oltre il filo spinato dello scalo di Kabul perché i soldati stranieri li portassero fuori dal Paese. «Cercavo di mantenerle in casa: aspettate, ce la faremo. Facevo lezione su Zoom alle ragazze collegate, attorno a un telefonino, da una cantina a Kabul con la connessione che saltava».
Il tentativo di Matta e della rete Sar era di farle sentire agganciate: «Tu devi prima mantenere quella speranza lì. Ci stiamo provando a tirarvi fuori, dicevo, intanto adesso sei qui con me, oggi abbiamo letto questo capitolo, domani ne facciamo un altro, piccole cose. A volte sono queste piccole cose che permettono di scavalcare il muro della paura». Sono stati circa 90 gli studiosi e le studentesse di Kabul accolti dall’Italia.
Oggi la situazione in Afghanistan non è cambiata. È cambiata solo l’attenzione mediatica, ma la condizione per le donne resta immutata: «Sono tre anni e mezzo che diciamo loro: aspettate, ce la faremo. Ora suona come una presa in giro». Per questo i muri della burocrazia e della politica possono essere pericolosi: «Illudere una persona e poi levarle quella speranza è una crudeltà perché tu sai che la speranza è l’unica cosa che tiene quella persona viva oppure impedisce un atto di follia».
Mara si riferisce alle procedure lunghe e complesse per l’uscita e l’accoglienza di queste persone nel nostro Paese: «I canali ufficiali si basano su precise norme che non ammettono eccezioni. A questi canali bisogna affiancare corridoi informali, non perché non si vogliano rispettare le regole, ma perché in questi casi il diritto allo studio diventa il diritto alla vita». La possibilità di studiare porta con sé una dimensione personale e psicologica che investe la sfera della sicurezza e dell’identità.
Il corridoio
È attraverso il corridoio di un dottorato su Asian Women Diaspora and Green Economy, dove Mara Matta insegna, che Jamila è riuscita ad arrivare alla Sapienza di Roma come studentessa internazionale. Jamila è riuscita a entrare per un soffio: un’iraniana che in graduatoria veniva prima di lei aveva fatto un errore nel presentare la domanda.
«Per avere il passaporto sono andata venticinque volte all’ufficio preposto: donne e uomini picchiati, donne portate in prigione. Ho dovuto pagare molti soldi per averlo. Sono andata in Iran e poi eccomi qui». Jamila sorseggia un caffè nel bar della facoltà.
Per lei il dottorato all’inizio non è stato semplice, non aveva esperienza in quel campo, ma in un anno è riuscita a mettersi al passo. «Porto dentro di me una parte oscura, ma anche una delle esperienze più luminose della mia vita: l’incontro con Mara Matta». L’incarnato pallido di Jamila si tinge di rosa, mentre le voci degli studenti la avvolgono con la loro allegria: «Lei ha aiutato me e le altre ad avere una nuova prospettiva. Ho perso mio padre qualche giorno fa, si era ammalato subito dopo la mia partenza nel 2022 e non l’ho più rivisto».
Come adattarsi anche a questa condizione?, si è chiesta Jamila: «Ho trovato la risposta nel modo in cui Mara affronta la vita: lei porta avanti una lotta importante per la sua salute e continua sempre a lavorare all’università. Lei c’è stata per me, c’è adesso e so che sarà con me qualsiasi decisione prenderò per il mio futuro».
Jamila passa una mano tra i capelli e guarda il traffico di Roma al di là della finestra: «Io non mi sento una vittima. Sarebbe un regalo per i Talebani: che noi donne, che abbiamo perso tutto, ci arrendiamo». Le afghane all’estero portano avanti la loro vita, leggono libri, trovano lavoro e lo fanno anche per la nuova generazione: «I Talebani, l’emigrazione, la morte di mio padre non mi hanno uccisa. Non essere una vittima non è un sentimento, è un lavoro. Fuori dall’Afghanistan noi donne stiamo resistendo. A mani vuote».
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