L’innovazione che ha un vero impatto sul sistema di insegnamento è quella organizzativa, sostengono Elena Mosa e Silvia Panzavolta, ricercatrici di Indire. Con loro abbiamo tracciato una “geografia” dell’innovazione scolastica in Italia, a partire dalle esperienze sul campo che sembrano destinate a lasciare il segno
L’innovazione scolastica disruptive, quella davvero impattante, è l’innovazione organizzativa, che riguarda il tempo, lo spazio e il curricolo, molto più dell’innovazione metodologica e digitale, solitamente più reclamizzate.
La ragione è presto detta: «Queste ultime hanno un impatto relativo perché toccano solo gli insegnanti “illuminati”, quei pochi che decidono di formarsi. Ma è dall’innovazione organizzativa che arriva il cambiamento, semplicemente perché investe tutte e tutti».
Non hanno dubbi su questo punto Elena Mosa e Silvia Panzavolta, ricercatrici Indire (Istituto nazionale Documentazione innovazione ricerca educativa).
La loro è una prospettiva privilegiata, forse unica, perché tra i loro compiti c’è anche quello di svolgere le cosiddette osservazioni di ricerca nelle scuole del Movimento avanguardie educative, la rete di scuole innovative promossa da Indire che nelle scorse settimane ha festeggiato i suoi dieci anni in buona salute: la fondazione è datata 6 novembre 2014, a Genova.
Insieme alle due ricercatrici è possibile percorrere una sorta di “geografia” dell’innovazione scolastica in Italia, a partire dalle esperienze sul campo che sembrano destinate a lasciare il segno.
Il tempo
Per cominciare: è possibile cambiare la scuola attraverso l’uso flessibile del tempo? «Sì – premette Elena Mosa – ma solo quando la leva del tempo non viene usata come un mero dispositivo organizzativo, per garantire la settimana corta o per agevolare il sistema dei trasporti; il cambiamento avviene quando si aziona questa leva per consentire alle discipline di comunicare meglio tra loro e creare le condizioni per una didattica per competenze».
E dunque, come si può agire concretamente per generare questo impatto? Sono due le direttrici fondamentali, a parere delle ricercatrici: la compattazione e la riduzione delle ore.
Riduzione oraria
Partiamo dalla riduzione, che sembrerebbe un fattore negativo, a primo impatto. «Dipende da come si utilizza il tempo recuperato». «Alcune scuole - spiegano - tra cui l’Istituto comprensivo Nodari di Lugo di Vicenza (VC) e il Liceo Parini di Milano, attraverso la riduzione dell’unità oraria a cinquanta minuti, hanno potuto garantire, all’interno del curricolo e non come aggiunta extracurriculare, delle attività quali i corsi di recupero sin dall’inizio dell’anno, senza attendere la fine del quadrimestre e con un insegnante diverso dal proprio.
Con lo stesso “ricavo” orario, inoltre, hanno potuto offrire potenziamento con attività specifiche come la preparazione ai test di ingresso in Medicina o altre attività non convenzionali, legate al piano di studi: un linguistico, per esempio, ha proposto il cinese in orario curriculare, mentre un liceo classico ha proposto lo studio della retorica».
Compattazione oraria
L’altro grande strumento di flessibilità del tempo è la compattazione delle ore, che si può utilizzare in diverse modalità. Alcune scuole hanno deciso di compattare il monte ore di alcune discipline in un solo quadrimestre, e quindi il corso italiano, per esempio, si consuma tutto nel primo quadrimestre, quello di matematica nel secondo.
Quale il vantaggio? «Questa organizzazione serve ad avere metà delle discipline da affrontare contemporaneamente. Da anni notiamo che l’affastellamento delle discipline manda in crisi gli studenti per l’eccessivo carico cognitivo: se in un giorno hai cinque discipline che viaggiano su binari paralleli e ti interrogano pure, il metodo di studio finisce per essere disorganico e immaturo, con il rischio di overload», spiega Mosa.
Si può compattare solo a livello quadrimestrale? «No, c’è anche un istituto onnicomprensivo (l’Istituto onnicomprensivo Della Rovere di Urbania, in provincia di Pesaro-Urbino) che compatta le ore a livello settimanale. In pratica, tutte le materie umanistiche si svolgono nella prima parte della settimana e così via. Con questo tipo di compattazione il docente dispone di più ore al giorno, può lavorare con meno stress e proporre anche attività didattiche per competenze, come possono essere il public speaking o il podcasting, che sarebbe impossibile realizzare con il consueto spezzatino orario».
Ridurre e compattare sembrano parole sovversive in Italia, dove la tendenza è sempre ad aggiungere. «E invece la nostra scuola – spiega Panzavolta – ha più ore rispetto ad altri Paesi. Eppure non siamo più performanti: non necessariamente un maggior numero di ore garantisce più impatto e qualità».
Lo spazio
Può essere decisiva anche la variabile spazio, che, secondo le ricercatrici, si gioca essenzialmente su tre aspetti: funzionalità, estetica e messaggio simbolico.
In che senso lo spazio può essere un messaggio simbolico? «All’Istituto comprensivo 3 di Modena, gli studenti indossano le ciabatte quando entrano a scuola: un segnale fortissimo di accoglienza. È come dire: siete a casa vostra».
Sempre in merito allo spazio, c’è anche chi sta destrutturando l’idea della classe come spazio preimpostato e statico. Nell’Istituto tecnico per il Turismo “Marconi” di Firenze, per esempio, c’è una parete con le sedie appese all’esterno. Si prendono solo se servono, così come i tavolini: se servono si possono montare, altrimenti si può fare senza. L’aula, liberata dal vincolo degli oggetti, si libera dallo schema statico del modello didattico frontale.
Curare lo spazio significa anche curare quello esterno all’aula, e infatti ci sono scuole che hanno cominciato a far muovere gli studenti e non gli insegnanti; e scuole che hanno modificato anche gli spazi esterni all’aula in prospettiva di apprendimento: al Liceo Agnoletti di Sesto Fiorentino, per esempio, possiamo trovare un’agorà con pianoforte e altre zone di disimpegno.
L’unità del curricolo
C’è anche un altro aspetto su cui riflettere, spiega Panzavolta: «I paesi esteri che performano meglio hanno un curricolo più fenomenico, cioè basato sull’analisi di fenomeni e di oggetti presi nella loro pluralità di sguardi. In Italia perdiamo spesso di vista l’unitarietà tra le discipline, anche se i rilievi Invalsi ci dicono tutti gli anni che i ragazzi compiono errori in matematica perché non comprendono bene il testo della traccia in italiano».
Una proposta interessante in tal senso arriva da una scuola di Lamezia Terme (Cosenza), l’Istituto tecnico economico De Fazio, dove si utilizza la narrazione per la costruzione del curricolo.
Cosa accade in pratica? C’è una trama predefinita, proposta dai docenti all’inizio dell’anno, che permette di connettere i nuclei essenziali delle discipline, a cui i ragazzi possono associare varianti di scrittura creativa libera.
Per esempio, se a un certo punto il protagonista della storia dovrà aprire un’azienda, serviranno conoscenze e competenze di economia aziendale, come la partita doppia; se dovrà sposarsi, serviranno conoscenze di diritto per il contratto matrimoniale; ci sarà bisogno delle lingue per scrivere alle agenzie di viaggio straniere e così via. E ovviamente, trattandosi di un racconto, i ragazzi dovranno anche scrivere parecchio, il che non guasta mai».
«Per un’iniziativa del genere, naturalmente, c’è bisogno di un intervento organizzativo del quadro orario, che è un dispositivo tecnico al servizio del curricolo», conclude Silvia Panzavolta. Si torna sempre al punto iniziale: la gestione del tempo.
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