È un torneo che sorprende sempre, sfuggendo alle previsioni troppo facili. La Francia è la favorita: ha la potenza di avanti poderosi e tattica rapida. L’Italia rimessa in piedi dalla nuova “cultura” portata da Quesada parte da Murrayfield, il prato di Edimburgo che smuove ricordi lieti
Giubileo d’argento per il Sei nazioni, amato anche da chi non ha, avvinghiato in profondità, il virus del rugby. Lo guardano in tanti e al dato televisivo (185 milioni l’anno scorso) è necessario aggiungere il milione che ha popolato templi, cattedrali, fortezze che punteggiano l’architettura del Championship. Trovare un biglietto è sempre un’impresa.
Il rugby è cambiato e gli adepti di una “chanson de geste” che non c’è più faticherebbero a riconoscerlo in questo turbine di nuove regole e nuovi canoni che lo hanno invaso: il cartellino rosso che priva una squadra di un giocatore non per quel che rimane del match ma per 20 minuti, l’occhio sempre più penetrante del Tmo (Television match officer) che spesso corregge l’arbitro e spegne l’entusiasmo per una magnifica meta annullata per una piccola venialità; l’arbitro che annuncia, stile football americano, il motivo di una certa decisione; la mischia e la touche che devono radunarsi nel giro stretto di trenta secondi perché chi comanda ha ordinato che il gioco sia sempre più veloce, placcando l’avversaria più temuta, la noia dello spettatore. La stazza degli avanti, sempre più una genia di titani. La mischia da una tonnellata oggi è realtà.
I protagonisti
Il 2025 ha il suo Principe Nero, il suo piccolo pirenaico, il trevigiano che è difficile abbattere, il celtico che pare uscito dalle pagine della mitologia irlandese, il Sigfrido scozzese importato dal Sudafrica e un vecchio neozelandese che prova a evitare il definitivo naufragio del Galles capace di antiche meraviglie.
Traducendo in nomi, Maro Itoje, londinese di genitori nigeriani, nato nella multietnica Camden, primo capitano di pelle scura dell’Inghilterra; Antoine Dupont, campione olimpico nel rugby a sette e di ritorno nel suo alveo naturale; Tommaso Menoncello, miglior giocatore del Torneo un anno fa e a 22 anni destinato a un futuro luminoso; Caelan Doris, “martello” che vuol trascinare l’Irlanda al traguardo proibito in questo quarto di secolo, tre titoli consecutivi; Duhan Van der Merwe, ala con il cardo addosso ma dalle solide radici boere; Warren Gatland che dopo aver portato quattro volte il Galles al successo, ha deciso di accompagnare il “piccolo popolo” in questo lungo momento di decadenza.
«Il Sei nazioni è il Sei nazioni» è una delle massime di Gatland. Significa che il Torneo può sfuggire alle previsioni troppo facili, che può essere un terreno che alletta, che promette, che tradisce.
La Francia è la favorita: ha la potenza di avanti poderosi, alcuni tratti dalle isole di una Francia lontana, quella oceanica; ha la tattica dettata rapida, nervosa, da Dupont; la precisione metronomica del piede di Ramos, la velocità fulminea di Bielle-Biarrey. A novembre ha provato a ricucire in parte la ferita apertasi durate il Mondiale di casa e ha battuto gli All Blacks.
Il ct Fabien Galthié sa che il confronto decisivo sarà con l’Irlanda che, dopo attenta analisi, non appare più la macchina perfetta delle due ultime stagioni quando ritmo e meccanica dello sviluppo dell’azione l’hanno resa la “green machine”.
Il ritiro di Johnny Sexton ha promosso a direttore delle operazioni un giovanissimo dall’andatura caracollante, Sam Prendergast. Sabato 1° febbraio il primo test contro l’Inghilterra che, secondo un vecchio detto (manca sempre un penny per fare uno scellino) nell’era del ct Steve Borthwick esce spesso sconfitta per corte incollature.
La cultura di Quesada
L’Italia inizia a Murrayfield, il prato di Edimburgo che smuove ricordi lieti: nel 2007 la prima vittoria esterna, venuta dopo un rutilante inizio scandito da tre mete in quattro minuti e mezzo: la seconda otto anni dopo, sofferta e decisa da una meta di punizione accordata allo scadere. L’avvento di Gonzalo Quesada ha cambiato la percezione degli azzurri, capaci di attraversare la terra desolata di anni difficili, terribili, culminati nella catena dell’infelicità che si è allungata per trentasei match.
L’allenatore di Buenos Aires, con lunga milizia in Francia, ha lavorato su quella che lui definisce “cultura”: impegno sul campo, ricerca di strategie e un profondo lavoro psicologico sui giocatori, sulla loro capacità di convinzione, di determinazione.
Ne è venuta fuori il miglior Torneo di sempre: pari con la Francia, con l’ustionante rammarico del palo colto da Paolo Garbisi sul piazzato determinante, vittoria in rimonta sulla Scozia, dominio impresso a Cardiff, coronato dalla meta di Lorenzo Pani, votata come la segnatura più bella della stagione.
Quesada sa di essere sulla strada giusta: ha una buona mischia, ha una coppia di centri (il veterano Nacho Brex e l’implaccabile Menoncello) che sanno tamponare e offendere, ha l’imprevedibilità di Ange Capuozo che oggi torna all’ala per trovarsi sulla stessa “mano” di Van der Merwe, superiore a lui per peso e statura e proprio per questo “perforabile” dallo scugnizzo finito a giocare nella squadra più forte del mondo, Tolosa.
La statistica dice che l’Italia ha vinto solo tre volte la partita d’esordio, e sempre in casa; la Scozia, sette. Con gli scalpi preziosi delle ultime stagioni quando i blu hanno riportato la Calcutta Cup al nord piegando a Twickenham il vecchio nemico, l’Inghilterra. Il vento di Murrayfield porta il sapore di uno scontro alla pari.
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