Nessuno saprà mai cosa è successo davvero, ma ci sono alcune cose che sono vere al di là della sentenza e che ci lasciano addosso la sensazione appiccicosa di aver partecipato a uno spettacolo pietoso che non ci riguardava
É finita come era chiaro che sarebbe finita e come non sarebbe dovuta finire, ovvero con una sentenza che decreta un vincitore – Johnny Depp – e che però, in fondo, dice che qualcosa ha vinto anche Amber Heard. Una sentenza che è il contrario di come sarebbero dovute andare le cose: dovevano perdere entrambi.
Lo spiega bene l’analista legale Danny Cevallos in un lungo articolo su Nbc News, in cui analizza il processo da un punto di vista tecnico e sostiene che la giuria abbia sbagliato tutto. Perché se è vero che l’ormai famoso articolo sul Washington Post in cui Amber Heard faceva riferimento agli abusi domestici subiti era diffamante, è vero che Amber Heard ha sempre mentito. Su tutto. Che non c’è mai stato un maltrattamento fisico o psicologico, che ogni singolo racconto e aneddoto è stato architettato per distruggere il suo ex marito.
Perché sarebbe bastato credere ad un solo racconto per stabilire che le sue parole non fossero diffamanti. Ma dal momento che non è stata creduta in nulla e si è ritenuto che abbia agito con dolo effettivo, non è ben chiaro perché abbia vinto contro l’ex avvocato di Johnny Depp, Adam Waldman, che l’aveva accusata di aver architettato un imbroglio ai danni di Depp e che accanto a Depp aveva perso la causa contro il Sun in Inghilterra.
Insomma: Depp è un picchiatore per la corte inglese, la vittima di un imbroglio per la corte americana. Amber Hard è una diffamatrice perché ha mentito sugli abusi e una diffamata perché è stata accusata di aver inventato gli abusi. Ecco perché non dovevano esserci vincitori ma solo sconfitti. Perché in questo processo a porte spalancate e forse senza neppure un tetto e le pareti, la verità è sempre stata un pantano.
Nessuno saprà mai cosa è successo davvero. È difficile perfino interpretare gli equilibri su cui si reggono le nostre, di relazioni, figuriamoci quanto può essere complesso comprendere i disequilibri su cui si è schiantata la relazione tra due attori che hanno raccontato di dita mozzate, feci nel letto e droga a colazione.
Autopsia di un matrimonio
Ci sono però alcune cose che sono vere, al di là di una sentenza che decreta un vincitore quasi assoluto, lasciandoci addosso la sensazione appiccicosa di aver partecipato a uno spettacolo pietoso, che non ci riguardava. É vero, per esempio, che questo processo non sarebbe mai dovuto finire in tv e su Youtube, che nessuno dei due avrebbe mai dovuto avere una telecamera puntata addosso a coglierne smorfie, sorrisi, stizza e complicità con gli avvocati.
È vero che si doveva evitare l’autopsia di un matrimonio, perché il rischio di buttare nel cesso la buona pratica di non esporre al tribunale del popolo chi racconta abusi domestici (chiunque esso sia) dovrebbe rimanere un cardine imprescindibile del buonsenso. Perché il rischio è esattamente ciò che si è verificato. Ovvero, che la giustizia diventi tifo.
Che chi racconta gli abusi non indossi il vestito della vittima perfetta, ma che sia –magari – un’attrice algida, bellissima, con lo sguardo duro e pettinature da severa istitutrice. Che sia ambigua, anche, che racconti perfino bugie, che dia l’idea di essere stata anche parte attiva in una relazione disfunzionale e non la fragile soccombente. Che non sia simpatica. Che abbia tentato di raccontare una storia malata come una storia in cui c’era un malato e basta.
Non dovevamo vedere il suo pianto asciutto, perché avevamo già deciso che mentiva e che non ci era simpatica. Che ogni suo sguardo e parola erano falsi e maldestri. Non bisognerebbe mai esporre nessuno che parla di abusi a tutto questo. Perché gli abusi, il racconto degli abusi, sono materia da maneggiare con attenzione, rispetto e prudenza fino all’ultimo, anche quando non ci convincono, anche quando ci sembra che qualcosa non torni, anche e soprattutto quando – come in questo caso – i fatti suggeriscono un’escalation di follia reciproca.
Tutto si è giocato sull’emotività, sulla delegittimazione della Heard, sulla lapidazione pubblica a colpi di tweet, meme, video, hashtag e fanbase. Per mesi ho assistito allibita alla scelta chirurgica delle foto da abbinare agli articoli sul processo, foto in cui Depp era quasi sempre sorridente, rassicurante la Heard cristallizzata in smorfie sadiche e deformanti. Inutile dire che se fosse stata la Heard a ridersela continuamente con i suoi avvocati, la lettura sarebbe stata: guardate come è beffarda. I sorrisi di Depp invece sono stati letti come la sua leggerezza sicura di fronte alle isterie di una pazza.
Vittime e carnefici
E a proposito di stato mentale vero o presunto, va aperto un altro capitolo. Depp ha ingaggiato una psicologa forense per interpretare la personalità della ex moglie. La diagnosi è stata disturbo borderline di personalità e disturbo istrionico. Depp, a sua volta, ha ammesso dipendenze da varie sostanze, dipendenze ampiamente documentate da filmati e foto.
Dunque, se tutto questo è vero, si tratta di due persone con dei problemi da risolvere. Eppure nessuno ha mai giudicato Amber Heard come una persona che andrebbe aiutata, vittima dei suoi stessi mostri, di un disturbo che andrebbe trattato da esperti. Lei è una megera sadica e opportunista con cui la vita doveva essere un inferno.
Dall’altra parte, invece, c’è un attore idolatrato, amato da tutte le generazioni, ormai non più giovanissimo, imbolsito, che fa un po’ malinconia perché, poverino, è vittima dei suoi mostri. Se li è trascinati dietro tutta la vita, povero uomo. E qui bisognerebbe aprire un’altra parentesi, ovvero su come la droga e le dipendenze siano fascinose e malinconiche nel ritratto maledetto dei famosi milionari e di come siano roba “da marcioni” nei poveri cristi, ma ci perderemmo.
Non ci perdiamo, però, se fissiamo un punto: la vita con una persona che ha dipendenze da alcol, psicofarmaci, cocaina non è una passeggiata nel bosco, ma questo, se quella persona si chiama Johnny Depp, sembra non avere alcun peso. «Cambiava personalità a seconda della droga che prendeva», ha raccontato Amber Heard. E in questo caso è difficile pensare che mentisse. Abbiamo visto le foto delle sue “colazioni”. Il suo dormire a terra stordito dalle sostanze. I calci ai mobili della cucina, le urla.
Ma l’idea romantica del maledetto – alla fine – cancella il sospetto che tutto questo possa diventare un atteggiamento abusante. Lo si assolve anche se lui ha 33 anni più di lei, anche se ha avuto una vita per disintossicarsi, anche se una persona che ha quelle dipendenze dovrebbe sapere bene che le relazioni, se non ci si cura, sono una palude piena di rischi, specie perché in quella palude si trascina sempre qualcuno con sé.
Ma Johnny, che avesse ragione o torto o metà e metà, era invincibile. Le ex compagne famose lo hanno difeso con affetto e onestamente si fa fatica a credere che nessuna di loro abbia mai patito quel suo abbrutimento, ma si sa, il tempo ingentilisce i ricordi (Kate Moss che racconta di essere scivolata sulle scale durante un temporale non era molto più credibile di Amber Heard che finge di cadere dalle nuvole quando le chiedono se abbia girato delle foto di Johnny strafatto a Tmz).
Molti attori e personaggi famosi lo hanno difeso. Perfino la sua avvocata Camilla Vasquez è diventata protagonista di una fantasia romantica («lei e Johnny si amano», dicevano i fan).
I media e Amber Heard
La stampa, con Amber Heard, è stata spietata. Non le ha perdonato nulla, ha analizzato perfino il suo linguaggio non verbale scorgendo bugie nelle labbra troppo serrate, ha ripescato vecchie storie dimenticando le vecchie storie di Johnny, ha assecondato la violenza dei social, ha ritenuto che in Amber Heard esistessero solo furbizia e malafede, come se anche la furbizia e la malafede non potessero essere immerse in una fanghiglia torbida assieme a molte verità.
Intendiamoci. Amber Heard non andava creduta aprioristicamente come nessuna presunta vittima, per giunta, ma andava ascoltata come ogni presunta vittima meriterebbe. Andava ascoltata con il rispetto che le si doveva, con la presunzione di innocenza che le si doveva, con il pudore che si doveva a lei e a tutta questa vicenda.
E no, non è vero che «adesso le donne faticheranno ad esser credute». Amber Heard, se ha mentito come stabilito dalla verità processuale, non rappresenta tutte le donne, rappresenta sé stessa, esattamente come Johnny Depp con i suoi mostri inseparabili non rappresenta tutti gli uomini, ma solo se stesso. Non è neppure la prima donna che mente, e non è questo il punto. Il vero passo indietro, in questo processo, lo ha fatto la capacità di ascolto. Tra il pirata fragile e la sciacquetta opportunista abbiamo deciso fin da subito che la seconda non avrebbe avuto scampo. Perché, come dice il pirata: «Figliolo, sono il capitano Jack Sparrow, comprendi?».
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