«Abbiamo perso tutti come società». Con queste parole il padre di Giulia Cecchettin, Gino, ha commentato la decisione in primo grado della corte d’assise di Venezia di condannare all’ergastolo Filippo Turetta, reo confesso, per il femminicidio di sua figlia, uccisa dall’ex fidanzato l’11 novembre 2023.

«Nessuno mi ridarà indietro Giulia, non sono né più sollevato, né più triste rispetto a ieri», ha aggiunto, sottolineando come giustizia sia stata fatta, ma «la violenza di genere va combattuta con la prevenzione. Come essere umano mi sento sconfitto».

La corte ha accolto quasi in toto la richiesta fatta dal pm nella requisitoria: i giudici hanno escluso le aggravanti della crudeltà e dello stalking, hanno invece accolto la premeditazione. La premeditazione, aveva spiegato il pm, è evidente dalla lista che Turetta aveva preparato quattro giorni prima del femminicidio, elencando gli oggetti che gli sarebbero serviti per uccidere la ragazza.

Giulia Cecchettin è stata uccisa pochi giorni prima della laurea in Ingegneria all’università di Padova, la stessa facoltà che frequentava Turetta. La sentenza ha interdetto lo studente 23enne dai pubblici uffici e previsto il risarcimento patrimoniale e non patrimoniale per le parti civili: 500mila euro per il padre Gino Cecchettin, 100mila ognuno per i fratelli della ragazza, Elena e Davide, 30mila per lo zio e la nonna. Oltre al rimborso delle spese processuali.

Era una sentenza attesa. A dirlo anche il legale di parte civile, Stefano Tigani, che però ha precisato: «Nessuno vince oggi». Anche per Chiara Tramontano, la sorella di Giulia, uccisa dal compagno Alessandro Impagnatiello mentre era incinta al settimo mese, la condanna all’ergastolo non è stata una vittoria per nessuna: «Perché l’ergastolo è stato stabilito dopo la morte. Noi donne possiamo vincere solo quando cammineremo per le strade di questo paese e ci sentiremo sicure o soddisfatte della nostra vita, di quello che possiamo raggiungere».

Uno squarcio

Il femminicidio di Giulia Cecchettin è stato uno squarcio, ha portato a un cambiamento. Non per il numero di femminicidi, che continua a essere una linea rossa costante, che non cala: ogni tre giorni una donna viene uccisa perché donna. Proprio mentre veniva pronunciata la sentenza, infatti, è stato iscritto al registro degli indagati, per omicidio volontario, un altro uomo, il compagno di Cristina Pugliese, 27enne trovata morta impiccata nel bagno della sua abitazione a Caldiero, in provincia di Verona.

La storia di Cecchettin ha portato una novità nella narrazione, soprattutto per il ruolo che ha avuto la famiglia nel trasformare il proprio dolore in rabbia collettiva, richiamando la società tutta di fronte al portato culturale e politico della violenza di genere, fatta di comportamenti abusanti, violenza psicologica ed economica, stalking.

«Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere», aveva scritto in una lettera al Corriere della Sera la sorella minore, Elena. E poiché, come ha detto il padre Gino dopo la sentenza, il cambiamento non avviene nelle aule di giustizia ma nella società, ha dato vita alla fondazione Giulia Cecchettin, con l’obiettivo di rispettare uno dei pilastri della Convenzione di Istanbul: la prevenzione.

Un fenomeno strutturale

Nonostante ciò, la narrazione della violenza di genere e dei femminicidi rimane intrisa di stereotipi, romanticizzazione e sensazionalismo. È emerso anche nel racconto di questo processo, in cui si è dato risalto allo sguardo tra il padre e Turetta o alla stretta di mano con il legale dell’imputato. O, ancora, alle intercettazioni di Turetta o al colloquio con i suoi genitori, che lo hanno raccontato come un ragazzo disperato, incapace di gestire le proprie emozioni. Il legale di Turetta in aula, per evitare il riconoscimento delle aggravanti e quindi l’ergastolo, aveva poi affermato che l’aggressione era da ricondursi a un «cortocircuito» emotivo più che alla crudeltà. Invece, ha sottolineato in diversi momenti Elena Cecchettin, Turetta non è un mostro, «non una persona esterna alla società», e quelli che vengono definiti “mostri” «non sono malati, sono figli sani del patriarcato», di una cultura basata sul dominio. Quello che viene definito mostro è «un ragazzo bianco, italiano e “per bene”». I dati lo dimostrano. La maggior parte dei femminicidi avviene all’interno del contesto familiare. Secondo il ministero dell’Interno, quest’anno sono state uccise 101 donne, di cui 89 in ambito familiare e affettivo, 53 da partner o ex partner. L’Osservatorio di non una di meno, al 22 novembre, registra 106 femminicidi e transicidi. Manca però un database istituzionale pubblico di monitoraggio del fenomeno, che includa la dimensione culturale.

Diverse associazioni che lavorano nel contrasto alla violenza di genere hanno accolto la sentenza come «la giusta risposta della giustizia». «Ci auguriamo che la velocità e l’efficienza viste in questo procedimento siano garantite a tutte le donne, sia nelle situazioni gravissime di femminicidio sia nei tantissimi procedimenti di maltrattamenti, stalking, violenza sessuale», ha detto Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna.

All’inizio del processo a carico di Turetta, i giudici hanno però respinto la richiesta di costituzione di parte civile avanzata in tutto da cinque organizzazioni, tra cui Differenza Donna. Una decisione che aveva provocato «profondo sconcerto» alle associazioni femministe, la cui partecipazione in un processo ha una lunga storia. Un significato simbolico e culturale, non solo di solidarietà, di monitoraggio e denuncia della vittimizzazione secondaria. Ma soprattutto per ricordare che quel fatto raccontato come privato fa parte di un sistema strutturale, trasversale, che va oltre la classe sociale o la provenienza. Che è un problema di tutte e di tutti, che è un problema politico.

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