I detenuti appartengono a più di 15 nazionalità diverse. Gli operatori di polizia penitenziaria latitano e nessuno vuole fare il direttore al “Panzera” di Reggio, forse per l’alto tasso di criminalità del contesto di riferimento. Ecco cosa rivelano i dati raccolti dal Garante regionale
Appartengono a oltre 15 nazionalità diverse. Intorno a loro non c’è quasi nessuno che possa dargli voce. Sono i detenuti delle carceri di Reggio Calabria-Arghillà e della vicina Locri. Uomini reclusi e doppiamente isolati. Nelle case circondariali in cui si trovano i mediatori culturali sono pari a zero. Negli istituti penitenziari calabresi a mancare sono dunque quelle figure-filtro tra chi sta dietro alle sbarre e chi dovrebbe garantirne i diritti. Non serve parlare di incomunicabilità col mondo di fuori: le barriere “nascono” già all’interno delle celle.
Senza quei professionisti - la cui presenza è prevista dalla legge - che traducano le esigenze dei ristretti stranieri, si può parlare di rispetto della dignità? Se lo chiede Luca Muglia, Garante dei diritti delle persone detenute per la Calabria. «Spesso – spiega – sono gli stessi reclusi, quelli che hanno più dimestichezza con l’italiano, a farsi portavoce dei compagni di cella che non parlano la nostra lingua, ma il curdo, l’africano, l’arabo, il russo, l’ucraino. Tutto ciò è rischioso – continua il Garante regionale –, soprattutto quando si ha a che fare con questioni sanitarie: si consideri la visita di primo ingresso dei detenuti. Se si sbaglia nell’uso di un termine che cure potrà approntare il medico del penitenziario?».
«Carenze inaccettabili»
A latitare non sono soltanto i mediatori culturali (sono assenti anche nelle carceri di Cosenza, Paola e Laureana di Borrello). Si parla pure di “deficit” del personale di polizia penitenziaria. «Una situazione – afferma Muglia – che riguarda in modo pesante quasi tutti i 12 istituti calabresi, raggiungendo in alcuni casi livelli inaccettabili».
Il quadro tratteggiato dal Garante – i dati raccolti confluiranno nella relazione annuale, che presenterà il 27 novembre a Reggio Calabria – non è entusiasmante. All’“Ugo Caridi” di Catanzaro servirebbero i 94 operatori di polizia penitenziaria previsti dalla pianta organica, in quello di Vibo ne servirebbero 70 e al “Salsone” di Palmi, un tempo carcere di massima sicurezza, gli operatori che mancano sono 40. «Le carenze di organico – sottolinea Muglia - generano effetti a catena che recano danno all’intero sistema». Se non c’è il funzionario giuridico-pedagogico la pena non sarà quella “rieducativa” prevista dalla Costituzione.
Nel carcere di Paola, nel Cosentino, così come in quello di Palmi, in provincia di Reggio, i professionisti che dovrebbero occuparsi del trattamento del recluso sono in totale e in entrambi i casi 2: ne servirebbero molti di più, considerando che a Paola i detenuti sono 197 e a Palmi 163.
Mancano volontari, mancano in alcuni casi gli insegnanti perché non è presente il ciclo di scuola secondaria superiore («Questo accadeva rispettivamente negli istituti di Reggio-Arghillà e Palmi, ma grazie all’intervento del mio Ufficio i corsi sono stati finalmente attivati», chiosa Muglia). Mancano addirittura i direttori: al “Panzera” di Reggio l’ultimo interpello per il conferimento dell’incarico dirigenziale sarebbe andato deserto. Come a dire che nessuno vuole ricoprire ruoli di responsabilità all’interno dei penitenziari, fatto che probabilmente dipende anche dai contesti, ad alto tasso di criminalità, di riferimento.
Edilizia penitenziaria
Così mentre l’Istituto penale minorile, il “Paternostro” di Catanzaro, viene ampliato e passa a 36 posti (dopo l’apertura della seconda sezione di 20 posti in aggiunta ai 16 preesistenti), i lavori legati all’edilizia nelle carceri per adulti procedono a rilento e l’unico istituto destinatario di fondi Pnrr è quello di Arghillà.
«Oltre al progressivo e innegabile sovraffollamento, in alcuni istituti o sezioni mancano le docce nelle camere detentive. In Calabria - aggiunge il Garante - mancano anche le camere di sicurezza, spazi all’interno delle caserme dove l’arrestato o fermato deve permanere per massimo 48 ore in attesa dell’eventuale convalida della misura da parte del giudice. In assenza di spazi idonei l’arrestato o fermato viene condotto quasi sempre in carcere, trasformando così la regola in eccezione». Lo scenario è complesso.
«Ma c’è anche qualche luce – conclude Muglia – Alcuni progetti d’istituto forniscono un’offerta ben articolata; buona l’attività dei laboratori artigianali, la didattica universitaria e i corsi professionalizzanti; la sanità penitenziaria appare in risalita, mostrando anche eccellenze».
La situazione non è tanto diversa nelle altre regioni d’Italia. L’ultimo rapporto Antigone rileva carenza di personale. «Nelle 38 visite fatte da Antigone nel primo semestre del 2022 abbiamo registrato una presenza media di 1,7 persone detenute per ogni agente di polizia penitenziaria. Nelle 42 visite fatte dall’inizio del 2023 ad oggi, questo valore è salito ad 1,8, a causa della crescita delle presenze», si legge non a caso nel rapporto che pure segnala l’anomalia dei direttori “mancanti”.
La Carta tradita
È il 1993 quando la Corte costituzionale, con la sentenza numero 349, afferma che «chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale».
In altre parole, la possibilità di esprimere la propria personalità non può essere negata ai detenuti in quanto tali. Ma se persistono zone d’ombra, la strada verso il riconoscimento della pari dignità, a Caino come ad Abele, è ancora lunga. Peccato che da quella pronuncia siano trascorsi ben 30 anni.
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