In Italia nel rapporto fra squadre e tifo organizzato prevale ancora la logica del compromesso. Gli Slo sono spesso scelti tra ex capi delle curve. L’inchiesta di Milano e il caso degli “striscionisti”
L’impossibile normalità. In Italia il rapporto fra le società di calcio e il mondo del tifo sconta gli effetti di un’immaturità perenne, del mancato salto verso una dimensione adulta in cui il rapporto si declina nei termini della mutua assunzione di responsabilità.
In altri paesi d’Europa ciò è patrimonio da decenni. Invece in Italia le sparute isole di vera partecipazione democratica, come quelle che si raccolgono intorno all’associazione Supporters in Campo, vivono una quotidianità complicata. Isolate rispetto a una condizione che invece normalizza uno standard insano dei rapporti fra calcio e tifo. Lo standard testimoniato dalle carte dell’inchiesta che nelle prime ore di lunedì 30 settembre ha portato a decapitare le leadership delle curve di Inter e Milan.
Si tratta di una modalità dei rapporti basata su uno strano mix fra diffidenza e convenienza. Le due parti (le società di calcio e la parte di tifo radicale colonizzata dalle frange criminali) non si stimano e farebbero volentieri a meno l’una dell’altra.
Ma sono obbligate a coesistere in un ecosistema che non dà alternative, dunque devono trovare un modus fatto di compromessi scellerati. E lungo la linea di questa complicata coesistenza c’è un ventre molle, formato da una lista di figure che si ritrovano a fare da cerniera fra i club e il tifo. Costrette allo stress perenne e a maneggiare il lavoro sporco del compromesso.
Equilibri
Dialogare coi tifosi si deve. Si tratta di un assunto che nessuno si sognerebbe di mettere in discussione, tanto più che senza i tifosi non esisterebbero il calcio come fenomeno culturale di massa e come industria fra le principali nell’odierna economia dell’intrattenimento. Anche per questo sono sorte figure come quella del Supporters Liaison Officer (Slo), sperimentata dapprima in Germania e successivamente diffusa nel calcio europeo per impulso dell’Uefa.
Si tratta di una figura cui tocca fare da collegamento fra il club calcistico e i tifosi. Questi ultimi compongono una comunità composita, che va dai settori Vip alle curve. In linea teorica, lo Slo dovrebbe dialogare con tutte le anime del tifo del club. Ma nei fatti si trova a interagire soprattutto col tifo organizzato, cioè quello dei club di tifosi, fra i quali si trovano quelli cui danno vita le fazioni ultras.
Quella dello Slo è una figura che il calcio italiano continua a metabolizzare poco e male, tuttora immersa in una fase di rodaggio che pare non finire mai. Le società di calcio ne farebbero volentieri a meno. Ma poiché sono obbligate dall’Uefa a prevederne la presenza nell’organigramma sociale, annaspano già in partenza nell’individuarne il profilo. Si assiste così alle soluzioni più disparate, che portano a affidare il ruolo a un soggetto espresso dalle curve ma anche a impiegati delle società cui non si trova un ruolo diverso.
Ciò che dalle carte dell’inchiesta milanese emerge con chiarezza è che il ruolo dello Slo è regolarmente ignorato dalle frange del tifo caratterizzate da una spiccata tendenza criminale. Ciò succede anche perché nelle società di calcio, specie quelle del massimo livello e perciò ampiamente differenziate per ruoli, sono presenti numerose altre figure alle quali, per competenza, capita di intercettare il mondo del tifo.
Così è nel caso dei dirigenti responsabili per la sicurezza, o di quelli che si occupano della biglietteria. Costoro subiscono una pressione continua, per effetto di modelli organizzativi delle società di calcio che scaricano sulle loro spalle responsabilità eccessive. E chissà se il procuratore della repubblica di Milano, Marcello Viola, si riferiva proprio a aspetti del genere quando lunedì ha sollecitato un miglioramento di quei modelli.
Forzosa complicità
La pressione su queste figure è continua, nonché condivisa con gli steward che sono figure esterne alle società e forniscono loro un servizio. Tutti quanti questi soggetti si trovano calate dentro un ecosistema, lo stadio, che è una zona franca per eccellenza nelle società contemporanee.
Un ambito dove minaccia e elusione, furbizia e arroganza, formano un mix esplosivo. A volte c’è compiacenza, altre volte si tratta di piegare la testa davanti all’intimidazione portata da soggetti il cui curriculum criminale rende male minore la violazione delle regole.
E poi ci sono le pratiche palesemente elusive che però vengono tollerate grazie a livelli di complicità nemmeno tacita. Per esempio, il caso degli “striscionisti”. Ossia, i componenti dei gruppi ultras cui è consentito entrare negli stadi un paio d’ore prima della partita per posizionare gli striscioni.
Nel caso di tifoserie delle squadre maggiori può trattarsi anche di un’ottantina di soggetti, per i quali i cancelli dello stadio si aprono con largo anticipo, e che poi restano nell’impianto in attesa che inizi la partita. Poiché sono tutti quanti dotati di abbonamento stagionale, dovrebbero “strisciare” la tessera all’ingresso quando entrano per apporre gli striscioni.
Dalle carte dell’inchiesta emerge che, almeno nel caso della curva interista, questo non succedeva. Gli striscionisti venivano fatti entrare liberamente. E le loro tessere venivano messe a disposizione per vendere (illegalmente) l’accesso singolo alla gara. Con ulteriore effetto perverso di provocare sovraffollamenti sugli spalti e gravi rischi per la sicurezza. Tutti vedevano e sapevano. Ma facevano finta di nulla, o al limite sollecitavano i capi a non esagerare. Come se l’eccesso non fosse l’unica misura nota in questo calcio fuori controllo.
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