Sale su un palco affollato di pipistrelli una ragazza imponente, una cascata di capelli ricci e scuri, il vocione basso: «Sono una metallara. A volte mia nonna mi fa: devi smettere di ascoltare quelli che urlano e parlano di morte. E me lo dice mentre ascolta Barbara D’Urso». Classe 1996, Sofia Gottardi, calze a rete, rossetto nero e borchie al collo, porta in scena al Carmen Town di Brescia il suo spettacolo One Disagiata Show, disponibile su YouTube.

Nata nella provincia veneta ma trasferita per lavoro a Milano, di mestiere fa la comica: «La stand up comedy è un modo per trasformare esperienze che mi hanno fatto star male in qualcosa che può far ridere sia me sia gli altri».

Da piccola, Sofia non stava molto con gli altri bambini. «Preferivo leggere e scrivere per ore». A 15 anni scrive il suo primo monologo di stand up comedy, a diciassette va in scena in un locale vicentino: «Raccontavo il mio rapporto tragicomico coi bambini durante uno stage in una scuola dell’infanzia, da me nominato Diario di guerra».

Da quel giorno Sofia decide che si sarebbe guadagnata da vivere scrivendo. Dal 2019 lavora con Comedy Central, Audible, il diario Smemoranda, Barbascura X, TedX Vicenza, L’Espresso. Oggi porta i suoi spettacoli in giro per l’Italia e sui social pubblica video che uniscono umorismo e sensibilizzazione. «Voglio far capire a chi ha vissuto le mie stesse difficoltà che non è solo e che si può tornare a sorridere». In One Disagiata Show Sofia mette in scena pezzi importanti della sua vita: dal bullismo delle superiori alle molestie vissute a vent’anni, alla dipendenza dai social network durante il periodo Covid.

Il bullismo a scuola

«Per via del mio stile, a scuola pensavano che io fossi una tipa forte e aggressiva. Invece sono sempre stata insicura». Sofia leggeva libri fantasy, immaginava di essere una fata o una vampira. «Non capivo quello che dicevano le mie compagne. Facevo figure orribili». Come quella con la sua migliore amica Alessia che voleva confidarle di essere una ragazza trans.

«Non mi ero mai resa conto che lei lo fosse. Andò così. Sofia, volevo dirti che tu mi conosci come Alessia, però da bambina mi chiamavo Alfio, capisci perché? Certo, risposi, Alfio è un nome orribile da dare a una bambina, anche io avrei scelto Alessia. Sofia, sono trans, come fai a non capirlo? Sono alta e ho una voce bassa, mi disse. Così ho capito che non solo non sono capace di riconoscere una donna trans, ma potrei essere una di loro».

In classe nessuna vuole sedersi vicino a quella ragazzona, borchie al collo e risposte imbarazzanti. «A 15 anni non facevo sesso, non mi drogavo, non andavo in discoteca. Ho provato a vestirmi diversamente e a non fare battute inopportune, ma non è servito a niente».

 

Le altre fanno girare voci sul suo conto, la emarginano, la deridono. Sofia intanto non smette di scrivere, di coltivare l’ossessione per le parole, di torcerle intorno alla sofferenza per renderle affilate e incidere risposte argute, l’unica arma di cui dispone per esistere quando il resto del mondo la considera inadeguata.

Sofia sale sul palco per la prima volta a 17 anni, e da allora in ogni show il suo corpo parla dell’essere una comica in un ambiente dove a lavorare sono soprattutto gli uomini. «Si crede che la comicità fatta da uomini sia per tutti, mentre quella delle donne sia solo per un pubblico femminile».

In scena Sofia parla di molti temi: «Quando faccio una battuta sul sesso non è perché le comiche parlano solo di sesso, come pensano alcuni . Attraverso il sesso in realtà si affrontano questioni quali le relazioni, i sistemi di potere, il rapporto col proprio corpo, i pregiudizi culturali come quello che porta a scegliere le comiche per una serata non sulla base della bravura, ma perché ad esempio non possono esserci due comiche bionde nello stesso programma».

La scoperta dell’autismo

A 26 anni Sofia ha ricevuto la diagnosi di autismo. «Ho sempre sentito in me un funzionamento diverso. Faccio fatica a gestire più stimoli contemporaneamente. Se sono in un locale affollato con della musica, non riesco a mangiare e conversare. Sento tutti gli stimoli di colpo e in maniera intensa. Vado in confusione».

Essendo molto sensibile agli stimoli come il contatto con i tessuti ruvidi o i rumori di sottofondo, quando ne riceve troppi Sofia entra in uno stato di sovraccarico: «Aumentano la stanchezza e i pensieri negativi. A volte non riesco neanche a cucinare per me stessa». Deve stare da sola, al buio, nel silenzio. «Quando non posso fare queste cose, fingo di stare bene e lavoro lo stesso. Ma, avendo energie limitate, se do priorità al lavoro, devo rinunciare al resto».

Alle superiori Sofia aveva difficoltà a socializzare con i coetanei. «Le regole sociali per me non sono ovvie. Ho dovuto memorizzarle nel tempo a forza di sbagliare. Se una ragazza mi chiedeva se mi piacesse la sua maglietta, rispondevo di no in modo sincero, procurandomi la sua antipatia. Questo mi ha causato bullismo, isolamento e un’ansia costante di imparare le leggi non scritte dello stare insieme. Ne parlo nel mio show Autistica Sprint».

Sofia sale sul palco vestita di nero, il tono che assorbe tutti gli altri colori. Quando i suoi coetanei le hanno gettato il buio addosso, lei ha incamerato luce. E oggi la proietta sulla platea, un fascio di parole che fanno ridere e pensare: «A tre anni parlavo in terza persona: Sofia gioca. Sofia torna a casa. Facevo lunghi monologhi, ma purtroppo all’epoca nessuno mi pagava». È stata anche tacciata come non abbastanza autistica, «perché non ho deficit mentali e posso parlare. Ma se le persone autistiche non verbali non possono esprimersi e le persone autistiche come me vengono zittite non resta più nessuno a parlare a nome della nostra comunità».

Nei suoi show Sofia cerca linguaggi nuovi per raccontare l’autismo al mondo e il mondo attraverso l’autismo: «Non bisogna dire: affetto da o soffre di autismo. L’autismo non è una malattia e non va curato. È un modo diverso in cui funziona la mente, una neurodivergenza».

Le persone autistiche sono soggette a pensieri depressivi e ansiosi, «non perché sono autistiche, ma perché si sentono costrette a mettere la quasi totalità delle proprie energie al servizio di una comunità che non fa passi avanti per comprenderle. E, se non si comprende, si rischia di opprimere ancora di più minoranze già oppresse, usando linguaggi discriminatori, facendo tagli nel settore sanitario e scolastico, dichiarando che gli autistici non hanno bisogno di supporto o ascolto».

Prima della diagnosi, Sofia nascondeva i suoi tratti autistici per paura del giudizio. Ora comprende se stessa, usa i tappi quando c’è troppo rumore, riposa quando ne ha bisogno, non guarda le persone negli occhi quando ha poche energie: «Oggi sono fiera di sapere chi sono e di capire come stare meglio secondo il mio modo di sentire».

Sofia sale sul palco. Prende la parola per lei e per gli autistici che non parlano. Per lei e per le donne emarginate nel lavoro. Per lei e per chi vive la provincia profonda. Per lei e per tutte e tutti noi che sentiamo di doverci adeguare e cambiare perché non siamo abbastanza. Sofia sale sul palco, si prende la scena. Sa che il suo destino non è rientrare in uno stampo, ma imboccare una strada non ancora tracciata: fare della sua unicità un racconto trasversale che ribalta il pensiero della maggioranza.

Siamo tutti disagiati, sembra dirci con il rossetto nero e le borchie al collo. Le nostre differenze non sono il problema, ma la soluzione per riequilibrare questo mondo ingiusto. Con il suo sguardo divergente Sofia Gottardi, la comica autistica, ci insegna come ridere di ciò che ci ha fatto piangere.

© Riproduzione riservata