A febbraio 2024 aveva ricevuto il Panettone d’oro, il premio che ogni anno si assegna a Milano a chi si distingue per «opere di bene» e virtù civica. Una vita nelle carceri a parlare con i detenuti: da oltre 15 anni Anna Donelli, per tutti suor Anna, era volontaria a Brescia e San Vittore. «Per seminare speranza e far vivere l’amicizia a chi, oltre alla condanna», si legge nelle motivazioni della menzione, «deve fare i conti con la solitudine».

Ora suor Anna è finita ai domiciliari. Il reato contestato è pesante: «concorso esterno in associazione mafiosa» perché, secondo l’accusa, era la postina dei boss. Una religiosa che, grazie alla sua assistenza spirituale negli istituti di pena, portava dentro e fuori dal carcere i messaggi di Stefano Tripodi, il potente vertice dell’omonima cosca arrestato nell’operazione contro la ‘ndrangheta coordinata dalla procura di Brescia. Tripodi non era un mafioso qualsiasi: era un «Santista» e faceva parte del gotha ‘ndranghetista.

«A disposizione del sodalizio»

Consapevole o plagiata? Gli inquirenti sono convinti che suor Anna avesse «consapevolezza» del potere dei Tripodi e avrebbe messo a disposizione «la propria opera di assistente spirituale per veicolare messaggi tra gli appartenenti al clan».

Ma perché? La religiosa, da quanto emerge dall’inchiesta, non avrebbe avuto nessun vantaggio da questo «patto». A differenza dell’unico grande precedente, quello di suor Aldina Murelli, arrestata nel 1983 per aver collaborato con Raffaele Cutolo in cambio di mezzo milione di lire per ogni «ambasciata».

Suor Anna la sera prima dell’arresto era al boschetto di Rogoredo, la zona a sud di Milano dove dilaga la piaga dell’eroina. Sul retro della sua bici c’è una scritta: «Non rubatemi, altrimenti non vi posso aiutare». Una vita tra gli ultimi.

In carcere le è capitato anche di arbitrare partite di calcio – spesso l’unico momento di svago per i detenuti – tanto che veniva soprannominata «Collina», in omaggio al più famoso arbitro italiano. Eppure, da quanto emerge dalle carte dell’inchiesta, negli ultimi anni si sarebbe lasciata andare a comportamenti e frequentazioni compromettenti. Il gip ha scritto nero su bianco che Donelli si sarebbe messa «a disposizione del sodalizio».

«L’amica di Stefano»

«Se ti serve qualcosa dentro è dei nostri». Così Stefano Tripodi e il figlio parlavano della «suora che lavora al carcere». Dall’inchiesta è emerso che la religiosa abbia incontrato diverse volte il boss negli uffici della sua azienda a Flero, nel Bresciano, ritenuta la base logistica della cosca.

Suor Anna era presente quando Tripodi si faceva «vanto della propria capacità intimidatoria» ed esprimeva «apprezzamenti sulla crescita di Andrea Costante, riferendo a Donelli che avrebbe insegnato a sparare al ragazzo per mandarlo a fare delle rapine». Costante, classe 2000, è il più giovane tra gli arrestati.

In carcere si presentava come «l’amica di Stefano», come quando il boss le chiedeva «di incontrare Candiloro Francesco», condannato in via definitiva all’ergastolo il 4 dicembre per l’omicidio di Marcello Bruzzese, fratello del collaboratore di giustizia Biagio. L’indicazione era quella «di stare con lui fino al momento in cui non fosse presente nessun altro». Erano gli stessi personaggi ora arrestati a rivendicare l’«ampia collaborazione» di suor Anna. Una vicinanza, scrivono gli inquirenti, che «non appare né occasionale né insignificante».

Consapevole o plagiata, quindi? Donelli, si legge nelle carte dell’inchiesta, «esprime la propria personale consapevolezza del potere della famiglia Tripodi allorquando descrive a Tripodi Stefano l’incidente avuto da una nipote e riferisce di aver tranquillizzato la ragazza dicendo che avrebbe pensato lei alla vicenda tramite i suoi amici».

Per un’organizzazione mafiosa avere una sentinella all’interno delle carceri è una risorsa preziosissima. Per controllo, ma anche per «veicolare messaggi o comunicazioni all’interno», e da dentro per ricevere «informazioni dai detenuti utili per meglio pianificare strategie criminali di reazione alle attività investigative». E perché così, riuscendo a raggiungere membri del clan dietro le sbarre, si cercavano di «evitare anche possibili defezioni o collaborazioni».

Restano i punti interrogativi di una storia iniziata a 21 anni, quando per suor Anna è arrivata la vocazione con la frequentazione di carceri e periferie. Una «palestra di umanità», come l’ha definita lei stessa in un’intervista di qualche tempo fa, che ha trasformato il suo «sguardo, che ha iniziato a vedere prima di tutto e soprattutto la persona, l’uomo che mi sta davanti, sia nell’autore del reato sia in chi lo subisce. Anche perché – concludeva – queste due dimensioni sono presenti anche dentro di me: grano e zizzania».

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