Nato sul modello di quello delle donne di Sarajevo, è dedicato alle migranti qui in attesa di ottenere lo status di rifugiate. Il progetto serve anche a creare un archivio con le loro storie
Un tribunale femminista che sappia davvero accogliere le istanze delle donne in migrazione senza stigmi e giudizi: questo è il Tribunale delle donne, che promuove il diritto alla protezione internazionale ed a nuove forme di riparazione sociale e politica per le donne migranti, richiedenti asilo e rifugiate.
Un progetto che si propone di raccogliere le testimonianze delle donne al di fuori delle procedure regolate dalla legge, costruendo un archivio della memoria a partire dalle loro esperienze, senza giuria né sentenze.
La genesi del progetto
laria Boiano, avvocata e attivista femminista, membro dell’ufficio legale dell’associazione Differenza donna, racconta a Domani la genesi del progetto, nato dal confronto «che abbiamo avuto, nel 2022, sui tribunali delle donne come strumenti che le donne hanno utilizzato in varie parti del mondo, denunciando specifiche violazioni dei diritti delle donne nei propri paesi d’origine. Nel corso del tribunale internazionale femminista del 1976 parteciparono anche le donne italiane denunciando tutto ciò che riguardava la criminalizzazione dell’aborto».
Le responsabili del progetto, Ilaria Boiano e Isabella Peretti, hanno coordinato il lavoro proposto dalla Casa internazionale delle donne con Differenza Donna e Le Sconfinate, con l’adesione di Fondazione Basso, Donne di Benin City, Cooperativa EVA, Trama di terre, Cisda, Binario 15, Nove onlus, Nodi, Donne brasiliane in Italia, Bosnia nel cuore e Kalma; con l’obiettivo di spostare il discorso pubblico da quello meramente giudiziario e delle procedure amministrative a quello politico, per sollevare i nodi problematici dell’attuale sistema di regolazione delle frontiere.
Isabella Peretti, curatrice della collana “Sessismo e razzismo” per Futura editrice e presidente dell’associazione “Le sconfinate”, racconta a Domani come la progettualità si rifaccia a quella dei tribunali delle donne nel mondo: «Ce ne sono stati una quarantina, in vari continenti. In particolare ci siamo rifatte all’esperienze del Tribunale delle donne di Sarajevo, costituito dalle donne in nero di Belgrado » un tribunale anomalo, non istituzionale, fatto da donne per le donne «in cui le donne che avevano subito la guerra, spesso con stupri e violenze, nei tribunali ordinari davano testimonianza alle udienze, nei tribunali delle donne invece riuscivano ad esprimersi, a raccontarsi e sono riuscite a mettere insieme donne di tutte le nazionalità: croate, serbe, kosovare, bosniache».
Le testimonianze
M. è chirurga, docente universitaria e attivista femminista. A Kabul si occupava di violenza domestica contro donne accusate di aver leso l’onore della famiglia e della società e afferma: «Non voglio buttar via tutti i miei obiettivi, ma qui non riconoscono le mie competenze, eppure l’Italia ha bisogno di medici ma non sfruttano le nostre professionalità. Abbiamo lasciato il nostro paese perché non ci permettevano di studiare e lavorare e paradossalmente ci troviamo nella stessa situazione anche qui in Italia. Non riconoscere la mia laurea e la mia esperienza significa non riconoscere la mia dignità. Qui ci permettono solo di fare le badanti o al massimo le mediatrici culturali».
S.H. racconta di essere stata nella lista delle donne da uccidere. È scappata per raggiungere l’Italia e afferma: «Ci dicono di dimenticare le nostre lauree, i nostri ruoli, il nostro passato, di ricominciare a studiare dalla terza media. Le donne in Afghanistan muoiono per loro lotte, qui in Italia moriremo lentamente».
I problemi sono anche legati alla tratta a fini di sfruttamento sessuale, come racconta T. «il motivo che mi ha fatto allontanare da casa è che, con la mia famiglia, avevamo problemi economici», dopo varie peripezie ha trovato «una donna che mi ha accompagnata in Francia dicendomi che avrei potuto trovare lavoro, ma in realtà mi ha messo in strada a fare la prostituta per restituirle i soldi del viaggio, poi sono scappata ma ero rimasta incinta. Sono arrivata in Italia e per fortuna, nonostante non avessi agganci e documenti, una cooperativa mi ha ospitata».
N.A. viene dall’Afghanistan e racconta cosa voglia dire scappare attraversando i confini: «Sono partita a metà del 2018 e ho impiegato cinque anni ad arrivare in Germania. Le sfide sono state tantissime, soprattutto quelle legate all’attraversamento dei confini. Nessuno si preoccupa di quello che hai vissuto nel tuo percorso di fuga, l’unica cosa che interessa è dove ti abbiano preso le impronte digitali». Il senso comune di tutte «è la paura. Paura di essere rimandate indietro e di non sapere cosa accadrà alla tua vita. Ho un bisogno profondo di condividere la mia storia».
Tra i tanti ostacoli che le donne migranti devono superare, inoltre, ci sono le Commissioni per l’asilo che pretendono di conoscere i dettagli dei viaggi. Nelle commissioni c’è la richiesta di doversi dimostrare credibili, con la propria storia e il proprio vissuto, ma «molte ragazze provano vergogna a dover raccontare ciò che a loro è accaduto».
L’importanza del racconto
Dalle testimonianze delle donne migranti si evince un diniego ai diritti fondamentali: non riescono a chiedere ed ottenere una casa e l’iscrizione anagrafica cui sono legate tutte le prestazioni sociali, ovvero quegli strumenti che dovrebbero rimuovere gli ostacoli per l’uguaglianza sostanziale.
Si determina una situazione di vita precaria e un circolo vizioso all’interno del quale le donne, che sono rese fragili dalle pratiche amministrative inadeguate, rischiano di vedersi limitare la responsabilità genitoriale; in alcuni casi vedendosi portar via i figli. La narrazione delle donne rimane fondamentale per attraversare le diverse procedure, «ma in realtà quanto del loro vissuto, delle esperienze che hanno affrontato, viene davvero ascoltato, tenendo conto della denuncia che portano all’intero sistema?», afferma Boiano.
Allo stesso tempo c’è l’esperienza delle donne che lavorano nei centri antiviolenza e nelle case rifugio che «ascoltano, accolgono e devo elaborare il narrato delle donne per supportare i loro percorsi», e conclude: «Non ci interessava indagare le specifiche forme di violenza patite, piuttosto ragionare sulle ulteriori forme di oppressione che derivano dalla regolazione dei confini».
Quest’anno si sono dedicate a raccogliere, in un volume scritto, «la prospettiva del tribunale delle donne e le testimonianze delle donne che hanno partecipato. Stiamo preparando un incontro di follow-up con delle donne per cercare di capire che tipo di intervento si possa mettere in campo per facilitare il percorso di riconoscimento dei loro titoli di studio, che sarà proposto in autunno anche a donne della politica, per portare avanti questa iniziativa».
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