A fronte di poco più di 40mila docenti di ruolo, tra ordinari e associati, in Italia ci sono circa 15mila precari che tengono in piedi il sistema universitario: è il mondo del cosiddetto “preruolo”, vale a dire quella terra di mezzo che separa la fine del dottorato con l’immissione in ruolo di un ricercatore.

È un percorso già oggi lunghissimo che stime dell’Adi, l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia, valutano in oltre dieci anni di precariato. Si inizia verso i 31 anni e – per una minoranza che trova la stabilità – si conclude attorno ai 43 anni, con un’asticella che negli anni si è alzata sempre di più aumentando progressivamente l’età media dei docenti di ruolo.

Per migliorare la situazione nel 2022 il senatore del Pd Francesco Verducci introdusse nell’ordinamento il “Contratto di ricerca” che doveva sostituire l’assegno, passando quindi da un rapporto di lavoro parasubordinato a uno subordinato (di due-cinque anni), meglio pagato e soprattutto comprensivo di importanti tutele previdenziali e contributive: dall’indennità di malattia al sussidio di disoccupazione. Ma l’introduzione del Contratto ha trovato degli ostacoli in sede di applicazione.

Nel frattempo, si è insediato il governo Meloni e la ministra dell’Università Anna Maria Bernini «istituisce nell’ottobre del 2023 un gruppo di lavoro proprio dedicato al riordino, del preruolo universitario», spiega Davide Clementi, vicesegretario di Adi.

Ma cosa ha partorito questo gruppo di lavoro? Sono filtrate delle bozze nel mondo accademico di questa – parole della ministra – “cassetta degli attrezzi” che verrà messa a disposizione dell’università e conterrà ben sei nuovi contratti.

«Abbiamo per esempio le figure da borsista Junior e Senior che possono essere utilizzate per un massimo di sei anni. Abbiamo il Contratto di ricerca post-doc che può essere utilizzato anch’esso per un massimo di sei anni, poi abbiamo la figura del Professore aggiunto, chiamato a svolgere solo incarichi di didattica», spiega ancora Clementi, un ruolo che sulla carta dovrebbe coinvolgere nomi di chiara fama nazionale o internazionale, ma che secondo l’Adi «tante università utilizzeranno come utilizzano oggi le docenze a contratto per fare corsi che diversamente verrebbero cancellati, per poche centinaia di euro all’anno».

«L’unico pezzo buono – spiega Clementi – è quello che viene dalla riforma del 2022 che è il Ricercatore tenure track o Rtt, che dovrebbe sostituire gli attuali Ricercatori a tempo determinato (Rtd) sia “a” che “b”; e il Contratto di ricerca che dovrebbe sostituire l’assegno ma ancora non è usato».

La preoccupazione dell’Adi, che è il motivo della loro mobilitazione, nasce da una domanda: se già oggi con meno tipologie contrattuali il tempo di accesso al ruolo è mediamente di 12 anni, con la loro moltiplicazione, che ne sarà dei ricercatori? Del resto, basta vedere cosa accade nel resto del mercato del lavoro pieno di tipologie contrattuali e saturo di precarietà.

«Per assurdo – dice ancora Clementi – combinando le varie tipologie della cassetta degli attrezzi si può arrivare a sfiorare i 20 anni di precariato».

Oggi, infatti, la carriera è costellata di assegni di ricerca e contratti da Ricercatore a tempo determinato (Rtd) che si dividono in tipo “a” e “b”: i primi sono precari, i secondi (se nel frattempo acquisiscono l’abilitazione nazionale per la propria disciplina) al termine del contratto sono stabilizzati come professori associati.

Per gli assegnisti non sarebbe prevista la docenza, tuttavia, uno studio del 2019 sempre dell’Adi su un campione pari al 17 per cento del totale, dimostrava obblighi di docenza nel 77 per cento dei casi. Le università sopravvivono grazie a questo esercito di precari a cui un pezzo di mondo accademico non vuole riconoscere lo status di lavoratore, con tutte le relative tutele.

Nella maggior parte dei paesi europei, infatti, già ai dottorandi viene riconosciuto lo status di lavoratore, e non a caso l’Europa ha chiesto all’Italia di uniformarsi al resto dei paesi dove il percorso di stabilizzazione è più lineare e si è considerati lavoratori a tutti gli effetti.

«Il problema è che si è formata questa terra di mezzo di alcune decine di migliaia di persone che non hanno diritti contrattuali, non hanno rappresentanza sindacale o accademica e non hanno una forma di lavoro vero e proprio nei rapporti che intercorrono con gli Atenei, ma sono sotto forma di borse, di cococo, senza diritti e senza tutele, anche di carattere pensionistico e contributivo», spiega Luca Scacchi, responsabile docenza universitaria della Flc-Cgil.

Solo con le battaglie sindacali le cose sono migliorate. «Come sindacato abbiamo ottenuto la diss-col (assegno di disoccupazione, ndr) per gli assegnisti a metà degli anni 2015-2016», dice ancora Scacci. Prima ai precari non veniva riconosciuto alcun ammortizzatore sociale tra un contratto e l'altro.

Secondo il portavoce della ministra Bernini, Francesco Ciaraffa, «questa è una “cassetta degli attrezzi” grazie alla quale, le università e gli enti di ricerca avranno a disposizione un set di strumenti che utilizzeranno in base alle loro esigenze»,  dice. «A questo aggiungo che il contratto di ricerca rimane a disposizione qualora l’università ritenesse che quello sia lo strumento migliore e più adatto per i ricercatori che hanno davanti o per tutti i ricercatori che lavorano all’interno della loro università o del centro di ricerca, e saranno liberissime di utilizzarlo».

Effettivamente lo scorso 25 giugno in una audizione alla Camera, la ministra Bernini ha ribadito che da parte del ministero c’è il via libera alle università che volessero adottare questo nuovo rapporto di lavoro, anche se in via di perfezionamento.

Resta il nodo risorse in quanto il nuovo contratto è più oneroso rispetto alle alternative e non è affatto chiaro come esso possa essere utilizzato senza nuovi stanziamenti, specie se si considera che una quarantina di atenei avranno difficoltà a chiudere il bilancio 2026 quando i fondi Pnrr verranno meno.

Una prospettiva di contrazione dei posti a disposizione che non fa pensare che le università, potendo scegliere tra diverse opzioni, punteranno a dare a 15mila ricercatori il contratto più pesante. Anche su questo l’Europa va da un’altra parte rispetto all’Italia.

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