La sola cosa giusta che si può intravedere nella domanda “cosa farai dopo la scuola?” è il punto interrogativo.

Care ragazze, cari ragazzi, la verità è che noi adulti non abbiamo idea del futuro che vi attende, né dal punto di vista professionale, visto che non sappiano neanche come si chiameranno gran parte dei mestieri dei prossimi anni; né da quello sociale, anche se possiamo anticiparvi che avrete a che fare con crescenti e sempre più svariate forme di disuguaglianza e disagio.

Ecco, questo è tutto quel che potremmo dire con onestà a chi sta svolgendo la prova orale dell’esame di Stato, saltando i convenevoli ed evitando la domanda di rito: «E adesso, cosa hai intenzione di fare?».

A meno che la domanda non intenda effettivamente assegnare alle nuove generazioni il compito di trovare una risposta, e di andare coraggiosamente a vedere il futuro, a immaginarlo prima e poi a costruirlo. D’altronde, chi meglio di loro?

Tutto sembra già previsto

Per quel che ci riguarda, potremmo smettere di fare finta di interessarci a ciò che accadrà e concentrarci su quel che ci compete. Per esempio, senza dover ricorrere ad oroscopi o preveggenza, siamo abbastanza certi del percorso che ha portato quella persona in una determinata scuola, che sia un liceo classico o scientifico, liceo artistico, istituto tecnico agrario o professionale per i servizi socio-sanitari.

A partire dalla scuola frequentata e dall’esito dell’esame potremmo risalire al paese e addirittura al quartiere di provenienza, e poi agli arredi della casa, al lavoro e al titolo di studio dei genitori, se è stato frequentato l’asilo o la scuola dell’infanzia, i voti delle scuole medie, come è stato impiegato il tempo pomeridiano durante l’infanzia e l’adolescenza. Basti pensare che solo il 2,5% dei giovani 18-24enni con genitori con la laurea non si diploma, quota che sale al 5,3% se almeno un genitore ha un titolo secondario superiore e al 24,1% se si hanno due genitori con la licenza media.

Allo stesso modo, ricorrendo ai medesimi dati che ci mette a disposizione la ricerca sociale e che possiamo ricavare dal curriculum, potremmo dire qualcosa sulle future occupazioni di ciascuna o ciascuno: se frequenterà o no l’università, e in tal caso quale corso di laurea intraprenderà e con quali possibilità di successo, quale sarà, grosso modo, il livello stipendiale tra qualche anno o quanto avrà bisogno di ricorrere a determinate prestazioni sociali e sanitarie.

Non è una scienza esatta, ma le statistiche elaborate dall’Istat ci forniscono più di un indizio per capire il ruolo giocato dalle differenze di genere o dai divari territoriali e sociali che rendono il nostro sistema di istruzione profondamente diseguale e ingiusto.

La ricerca sociale, poco frequentata dalla grande maggioranza dei corsi di studio secondari, ci restituisce un ritratto piuttosto preciso degli svantaggi sociali che ogni individuo deve affrontare e che impediscono di godere di pari opportunità nel campo dell’istruzione.

E se è vero che il background migratorio rappresenta una delle caratteristiche più svantaggiose, anche le origini familiari, il genere e l’area di residenza hanno un ruolo decisivo nel determinare la durata e la qualità del percorso scolastico. Quando una persona rimane a scuola ma non riesce a imparare quel che effettivamente dovrebbe parliamo di dispersione implicita. Secondo l’Invalsi, in Campania interessa il 20% delle e degli studenti, mentre in tutte le regione del Nord è sotto il 5%. Inoltre, nei licei si attesta al 3,4%, nei tecnici al 10,8% e negli istituti professionali al 23,5%.

I dati premonitori

Guardatevi intorno, care e cari esaminandi. Cercate di fare mente locale sulle persone che hanno iniziato il percorso con voi e che adesso sono altrove, in altre scuole (se siete in un liceo, per esempio, chissà che qualcuno non abbia concluso il percorso in un tecnico o in professionale), oppure ancora in quarta o addirittura in terza. Sono ancora molte le persone che non arrivano al diploma, e che non avranno occasione di ricevere la fatidica domanda sul loro futuro.

D’altronde, in questo caso la risposta sarebbe davvero scontata, visti i dati forniti dall’Istat sul rapporto tra livelli di istruzione e ritorni occupazionali.

E adesso, giacché siete impegnati a osservare l’ambiente circostante, pensate bene a dove vi trovate, a quale tipo di diploma state per ricevere, al posto in cui abitate, alle risorse economiche di cui disponete effettivamente e al sostegno assolutamente necessario che potete ricevere dai vostri familiari, perché queste sono le caratteristiche che possono darci qualche informazione aggiuntiva sulle vostre possibilità.

Il futuro è ancora nostro

Poi, una volta raccolte tutte le informazioni utili, lasciamo fare il loro lavoro alle sociologhe e ai sociologi e torniamo alle questioni serie: cosa faremo dopo gli esami? Cosa farai?

Meglio lasciare che il destino faccia la sua parte e buttarsi nella mischia per rompere gli schemi e per inventare un futuro che ancora non è scritto e che non sarà mai completamente determinato da quei fattori predittivi che ben conosciamo. Siamo individui liberi, siete individui liberi, e adesso, dopo la scuola, esattamente come ieri e come l’altro ieri, è ancora il momento di agire e di andare a vedere cosa succede, cosa si è in grado di far succedere.

Noi adulti già diplomati e in parte anche laureati, noi che leggiamo i giornali e consultiamo i dati statistici e i risultati della ricerca sociale ed educativa, rimaniamo qui a domandarci cosa possiamo fare ancora, cosa possiamo fare di meglio, per far sì che l’istruzione diventi un canale di mobilità sociale e un servizio pubblico in grado di perseguire l’equità sociale.

Per adesso, fintanto che la scuola conserverà questo ruolo ambivalente di «principale via di uscita dallo svantaggio sociale» e di «meccanismo chiave di riproduzione della stratificazione» (sono parole del sociologo Gianluca Argentin), non ci rimane che far finta di credere che davvero tutto sia possibile, e domandare ancora una volta con convinzione: “Cosa farai dopo la scuola?”.

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