Ha superato i rigidi requisiti imposti dal Comitato olimpico. Contro di lei si è scatenata una polemica feroce condotta dai politici di destra. Ma gli studi dicono che le cure ormonali degli sportivi male to female rallentano le prestazioni annullando ogni ipotetico vantaggio. «Meglio essere una donna più lenta ma felice che un uomo più veloce ma triste»
A poche settimane dalle polemiche olimpiche contro la pugile algerina Imane Khelif, una nuova campagna d’odio, nata sui social e basata su discriminazione e disinformazione ha già iniziato a macchiare le Paralimpiadi di Parigi.
Protagonista della vicenda in questo caso è Valentina Petrillo, velocista e prima atleta transgender nella storia a gareggiare. Un caso quindi diverso da quello della medaglia d’oro Khelif, che però sta attirando simili attenzioni da ambienti di destra e gender critical.
Nel nostro paese, il sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro ha parlato di «ideologia talebana gender» e ha definito l’atleta azzurra «costituzionalmente, biologicamente, muscolarmente e strutturalmente uomo». L’eurodeputato di FdI Nicola Procaccini ha incolpato Petrillo per essersi qualificata al posto della spagnola Melani Berges. Nel Regno Unito, il Telegraph ha pubblicato un editoriale molto duro di Julie Bindel contro Petrillo, definita «a cheat», «un’imbrogliona».
La storia
A settembre 2020 Valentina Petrillo è diventata la prima atleta transgender paralimpica a partecipare a un campionato italiano nella categoria femminile cui sente di appartenere. E, nel 2021, è stata la prima a correre con la maglia della Nazionale italiana in una competizione internazionale, gli Europei di Bydgoszcz in Polonia. È una velocista ipovedente T12 (la classe sportiva nell’atletica leggera paralimpica dove T sta per track e 12 indica l’ipovisione con possibilità di atleta-guida) affetta dalla Sindrome di Stargardt.
Fino al 2023, è stata la prima a gareggiare con le donne pur avendo dei documenti maschili. «Sono legalmente una donna, riconosciuta con sentenza del tribunale di Bologna. Dal 16 gennaio 2023 ho la mia nuova carta d'identità con sesso F e con la relativa rettifica dell'atto di nascita, completando pertanto il mio percorso di transizione», spiega Petrillo, qualificatasi alle Paralimpiadi di Parigi. Prima di allora, era considerata donna solo nel mondo sportivo, divenendo però la prima al mondo ad applicare le linee guida del Cio (Comitato internazionale olimpico) del 2015.
Il percorso di Petrillo è partito nel 2019, quando ha deciso di iniziare il trattamento ormonale: «Nel 2018 ho comunicato che non avrei più gareggiato nella Fispes come Fabrizio. Non mi sentivo uomo e mi ero stufata di fingere. L’anno dopo ho iniziato la terapia ormonale nella speranza di fare sport nella categoria cui sentivo davvero di appartenere. Ho saputo delle linee guida e ho contattato la mia federazione dato che rientravo nei parametri», continua.
La voglia di ritornare a correre e rimettersi in gioco l’ha portata a conoscere il lavoro della dottoressa Joanna Harper: «La contattai io stessa. Era felice del mio percorso e di come cercasse sportive di alto livello nell’atletica leggera per la sua ricerca. L’unica che poteva darmi delle risposte. È stata lei a dirmi che avrei perso velocità e così è successo. Dopo sei mesi dal trattamento ho potuto constatare che ero più lenta. Mi aveva preannunciato tutto. Sono stata monitorata, assieme ai medici Fispes, Fidal e della World Athletics, inviandole tutti i miei tempi e compilando nuove schede ad hoc».
La ricerca di Harper
Nel 2015, la dottoressa Harper, ex atleta e transgender dal 2004, ha pubblicato il primo studio sulle prestazioni delle atlete transgender, scoprendo come le atlete riceventi un trattamento farmacologico per abbassare i livelli di testosterone non abbiano ottenuto sul campo e in varie gare dei risultati migliori contro le loro colleghe, rispetto a quanto avevano fatto in precedenza contro i corridori maschi, diventando quindi più lente. Le atlete transgender non hanno alcun vantaggio perché, con la terapia, diminuisce la loro velocità.
La ricerca di Harper riguarda quindi nello specifico la corsa: una disciplina per cui, nel 2019 e poi nel 2023, il World Athletics (ex Iaaf) ha deciso di modificare il limite di testosterone a 5 nmol/L, allineandolo anche alle normative delle atlete intersessuali o dsd (disorders of sex development), ovvero le persone con caratteristiche anatomiche e fisiologiche che appartengono a entrambi i sessi costrette a prendere farmaci perché considerate biologicamente maschi.
L’evoluzione del Cio e i parametri
Fino al 2003 le persone transgender non esistevano all’interno del circuito sportivo agonistico. Il Cio ha iniziato da quell’anno ad aprire una minuscola porticina verso il mondo transgender, ma a delle condizioni ben precise e discriminanti: l’obbligatorietà dell’intervento chirurgico di riassegnazione del sesso, due anni di terapia ormonale come documento per dimostrare di essere atleta uomo o donna, e la certificazione legale del proprio genere.
Dal 2003 al 2016, nessuno e nessuna atleta transgender ha mai partecipato ai Giochi olimpici invernali o estivi. Solo a novembre 2015 il Cio ha effettuato modifiche importanti con la collaborazione di un comitato medico presieduto dalla dottoressa Joanna Harper, delineando nelle nuove linee guida come sia «necessario garantire, per quanto possibile, che gli atleti transgender non siano esclusi dalla possibilità di partecipare alle gare».
È stato abolito l’obbligo dell’intervento chirurgico, richiedendo alle atlete MtF (male to female), biologicamente nate maschio che si identificano come donna, la dimostrazione di un livello di testosterone inferiore a 10 nanomoli per litro (nmol/L) almeno un anno prima della competizione. Mentre gli atleti FtM (female to male) possono competere senza restrizioni. Dimostrare un tasso inferiore di testosterone significa assumere dei farmaci consentiti.
La vicenda ha comunque sollevato dubbi e polemiche, poiché da un lato si sostiene che l’assunzione di farmaci possa mettere a rischio la salute delle atlete transgender, mentre dall’altro si ritiene che quegli stessi farmaci non creino parità ma che mantengano comunque un vantaggio sulle altre atlete cisgender (coloro cui sessualità e identità di genere coincidono).
Più lenta ma più felice
«Meglio essere una donna più lenta ma felice che un uomo più veloce ma triste» è una frase che Petrillo ha coniato su sé stessa, fatta di soddisfazioni e compromessi: «Non è stato facile vedere la mia velocità calare. Dopo tre mesi non riuscivo più a correre, c’era un disallineamento tra mente e corpo. Poi ho visto dei cambiamenti anche a livello interiore e questo mi ha dato la forza per andare avanti. Ora sono più felice e va bene così».
Va bene così nonostante lo scetticismo l’abbia sempre seguita: «Gareggiando anche con le normodotate, ho ricevuto delle lamentele. Poi hanno iniziato a conoscermi e ho messo la mia esperienza a disposizione di tutti. Credo molto nello sport, mi sono chiesta se fosse giusto facendomi mille domande, ma non puoi far sempre felici tutti. Quello che però mi ha stupita, specie con le normodotate, è che nessuna sapeva dei miei problemi di vista. E la mia è una malattia abbastanza grave. A quanto pare l’essere transgender supera la mia disabilità».
Nel 2023, la sua storia è stata raccontata nel docufilm 5 nanomoli, il sogno olimpico di una donna trans, per la regia di Elisa Mereghetti e Marco Mensa, prodotta da Etnhos, Gruppo Trans, con il sostegno dell’Uisp e di Arcigay.
Verso Parigi
Dopo la mancata qualifica di Tokyo, per Petrillo arriva Parigi: «Sportivamente parlando vorrei migliorare i miei tempi fatti a Parigi l'anno scorso ai mondiali. Potrebbe essere la mia ultima occasione quindi darò tutta me stessa. L'obiettivo minimo è andare in finale sia nei 400m che nei 200m e se dovesse arrivare una medaglia sarebbe fantastico».
Già nel 2023 l’azzurra ha subito una campagna d’odio online che l’ha portata a rinunciare ai mondiali Master indoor di atletica in Polonia. «Per quanto riguarda gli aspetti non sportivi di Parigi, spero che la mia partecipazione costituisca un momento di riflessione per lo sport, che ci possa portare sempre di più a parlare delle persone transgender in una maniera rispettosa. Ho deciso che la mia storia diventi una storia pubblica perché credo nel suo valore. Inoltre, credo che ci siano tante persone nella mia stessa situazione che vivono condizioni di disagio ed emarginazione sociale», conclude.
Le persone transgender non ottengono un vantaggio e lo dimostra anche la prima atleta transgender partecipante alle Olimpiadi di Tokyo, la pesista Laurel Hubbard, che non ha raggiunto la finale terminando in ultima posizione.
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